Vito Ciancimino
Vito Ciancimino (Corleone, 2 aprile 1924 – Roma, 19 novembre 2002) è stato un mafioso e politico siciliano, esponente della Democrazia Cristiana. Già sindaco di Palermo nel biennio 1970-1971, è tristemente noto nella veste di assessore comunale ai lavori pubblici (1959-1964) come il principale responsabile del Sacco di Palermo. Proprio per la sua attività politica è stato condannato, in via definitiva, per associazione per delinquere di stampo mafioso.
Biografia
Giovinezza e inizio della carriera politica
Nato e cresciuto a Corleone, sin dalla giovane età coltivò stretti rapporti con i boss Michele Navarra e Luciano Liggio. Prese il diploma di geometra nel 1943, intraprendendo la carriera universitaria in Ingegneria, senza però mai conseguire la laurea.
Iniziò la carriera politica a Roma, come segretario di Bernardo Mattarella, sottosegretario ai Trasporti del settimo governo De Gasperi (accusato più volte in quegli anni di essere uno dei referenti dei rapporti tra Cosa Nostra e la DC). Mattarella, padre di Piersanti, negò sempre di averlo avuto come componente della sua segreteria. Nel frattempo, a Palermo era diventato socio di un'impresa edile, che aveva ottenuto un appalto per il "trasporto di vagoni ferroviari a domicilio attraverso carrelli", proprio grazie alla raccomandazione di Mattarella[1]. Nel 1953 Ciancimino venne eletto nel comitato provinciale della Democrazia Cristiana e l'anno successivo divenne commissario comunale.
Assessore ai lavori pubblici: il Sacco di Palermo
Una volta eletto consigliere comunale nel 1956, Ciancimino venne nominato assessore ai lavori pubblici, in quanto esponente della corrente fanfaniana del partito. Il Sindaco (rimasto in carica fino al 1963) era Salvo Lima, anch'egli della corrente fanfaniana insieme a Giovanni Gioia (uno dei fondatori della corrente stessa, grazie al quale numerosi esponenti liberali, monarchici e separatisti entrarono nella DC palermitana, compresi alcuni boss di Cosa Nostra). Nella relazione di minoranza della prima Commissione Parlamentare Antimafia (1963)[2], firmata tra gli altri da Pio La Torre e Cesare Terranova, questi tre personaggi vennero citati più volte come punti di contatto e di rafforzamento dei rapporti tra la mafia e le istituzioni palermitane. Fu proprio questa triade a mettere in piedi il cosiddetto Sacco di Palermo, la più grande speculazione edilizia mai avvenuta in Sicilia.
Durante il periodo in cui Ciancimino fu assessore, delle 4.000 licenze edilizie rilasciate, 1600 figurarono rilasciate a tre prestanome, che non avevano nulla a che fare con l'edilizia[3]; inoltre, le modifiche apportate da Ciancimino al piano regolatore della città permisero alla ditta di Nicolò Di Trapani (pregiudicato per associazione a delinquere) di vendere aree edificabili ad imprese edili, mentre il costruttore Girolamo Moncada (legato al boss mafioso Michele Cavataio) ottenne in soli otto giorni licenze edilizie per numerosi edifici[4].
Negli anni dell'assessorato, Ciancimino entrò anche in rapporti con tre società edilizie e finanziarie: la SIR, la SICILCASA SpA e la ISEP, di cui faceva parte, tra gli altri, la moglie di Ciancimino, Epifania Silvia Scardino, insieme ai mafiosi Antonino Sorci (capo della cosca di Villagrazia) e Angelo Di Carlo (cugino del boss Michele Navarra e socio di Luciano Liggio).
Gli anni da sindaco, altri incarichi e i rapporti col partito
Dal 1966 al 1970 Ciancimino viene nominato capogruppo del partito, e gli viene assegnato anche l'incarico di responsabile degli enti locali nella sezione provinciale.
Nel 1970 la Democrazia Cristiana, con il 40,74%, vince le elezioni: sindaco viene eletto proprio Vito Ciancimino. La sua elezione fu duramente osteggiata dall'ex sindaco Salvo Lima, insieme a tutta la corrente andreottiana: questo perché già da tempo, e successivamente anche su spinta delle inchieste svolte dalla Commissione Parlamentare Antimafia, si era accesa una forte polemica sulla opportunità di candidare, o addirittura tenere tra le fila del consiglio comunale, un personaggio di così dubbia inclinazione. Per questo Ciancimino, fu costretto a dimettersi nemmeno un anno dopo l'elezione.
Subito dopo la rinuncia alla carica di primo cittadino, Ciancimino si discosta dalla corrente fanfaniana del partito, per formarne una autonoma; anche se poi, nel 1976, confluirà nella corrente andreottiana e sarà in stretti rapporti con l'on. Lima. In un incontro a Roma per sostenere l'entrata di Ciancimino nel partito, fu lo stesso Lima, su assenso di Giulio Andreotti, ad insistere e consentire l'entrata definitiva di Ciancimino nel partito. Le ragioni che spiegano questo cambio di rotta nel giro di pochi anni, sono da rilevarsi nel mantenimento, da parte dell'on. Lima, della maggioranza all'interno del Comitato Provinciale della DC di Palermo che, con un'ulteriore rottura con l'ex sindaco, non sarebbe stato possibile garantire. In realtà i contrasti nascosti tra Lima e Ciancimino non tardarono a portare alla rottura di quest'ultimo con la corrente andreottiana. Lo stesso Lima, recatosi a Roma, si sfogherà con Tommaso Buscetta a proposito delle pressioni ricevute da Ciancimino.
Come riporta Buscetta in uno dei suoi interrogatori, Lima si lamentava del fatto che '"i Corleonesi gli davano molto fastidio (...), che non lo lasciavano vivere e che questo avveniva attraverso Ciancimino"'.
Nel congresso regionale, svoltosi ad Agrigento nel 1983, l'on. De Mita espresse chiaramente l'intenzione di espellere Vito Ciancimino dal partito siciliano: non era più possibile giustificare la figura dell'ex sindaco all'interno del più grande partito della nazione.
Arresto e condanna per associazione mafiosa
Il 3 novembre 1984, Vito Ciancimino viene arrestato nella sua abitazione di Palermo. L'ex sindaco, sulla base delle dichiarazioni del superpentito Tommaso Buscetta, e le incessanti indagini svolte tra Italia e America dal giudice Giovanni Falcone, viene accusato di associazione mafiosa ed esportazione di capitali all'estero.
Il 17 gennaio 1992, la quinta sezione del Tribunale di Palermo condanna Ciancimino a 10 anni di carcere: non verrà portato in cella perché godeva della libertà provvisoria e la sentenza non risultava ancora definitiva. Per la prima volta a Palermo, un esponente di spicco del più grande partito della nazione e della regione, viene riconosciuto affiliato a Cosa Nostra, stabilendo nero su bianco che la mafia aveva intenzione (e grazie al Sacco di Palermo in parte ci riuscì) di mantenere e perpetrare il controllo sulla città tramite l'amministrazione comunale. La Cassazione, nel 1993, lo condanna definitivamente a otto anni.
Il soggiorno obbligato e gli ultimi anni di vita
Dopo la condanna in secondo grado, Ciancimino viene mandato in soggiorno obbligato a Patti Marina (provincia di Messina) e poi in Molise. Gli ultimi mesi prima di morire, il 28 ottobre del 2001, li trascorrerà a Roma: quando muore si trova ancora agli arresti domiciliari, a tredici anni dalla condanna definitiva.
Il tesoro di Ciancimino, Gladio e lo Ior
L'attività di Ciancimino negli anni, soprattutto dopo l'arresto, fu non soltanto cercare appoggi all'interno del proprio partito per sfuggire al carcere, ma anche di proteggere l'ingente patrimonio accumulato negli anni: il "tesoro di Ciancimino". Si parla di decide di milioni di euro. Questo tesoro, ancora oggi, non è stato mai trovato: il figlio Massimo Ciancimino, però, nel 2009 è stato condannato per il reato di riciclaggio (l'accusa è quella appunto di aver gestito il tesoro del padre insieme alla madre e ai suoi avvocati); ed è attualmente indagato dalla DDA di Roma per concorso in riciclaggio: sembra che il figlio di Don Vito si sarebbe prestato a riciclare 115 milioni nella più grande discarica d'Europa situata a Glina, in Romania, tramite la società rumena Ecorec, che gestisce la discarica.
Inoltre, sempre Ciancimino junior, ha dichiarato che il padre faceva parte di Gladio (l'organizzazione paramilitare clandestina promossa dalla Nato per contrastare una possibile evasione sovietica): il suo ruolo era quello di gestire, attraverso lo IOR (la banca dello Stato Vaticano), sia i soldi degli investimenti mafiosi, sia le tangenti provenienti dalla politica. Più precisamente, sempre su dichiarazione del figlio di Don Vito, Ciancimino aveva innanzitutto aperto due cassette di sicurezza, gestiti da alcuni prestanome; inoltre, erano aperti alcuni conti corrente che '"venivano utilizzati per discreti passaggi di denaro e per pagare le famose «messe a posto» per la gestione degli appalti per la manutenzione delle strade e delle fogne di Palermo affidata al conte Arturo Cassina, cavaliere del Santo Sepolcro [...] Le transazioni a favore di mio padre passavano tutte tramite i conti e le cassette dello Ior. Poi, dopo incontri con dirigenti della banca, i capitali venivano trasferiti a Ginevra attraverso l'onorevole Giovanni Matta e la buonanima di Roberto Parisi, l'ex presidente del Palermo calcio al quale faceva riferimento la manutenzione dell'illuminazione di tutta la città."'
Trattativa Stato-Mafia
Il coinvolgimento nella cattura di Totò Riina
Sempre sulla base di dichiarazioni del figlio Massimo, sembra che Don Vito abbia svolto un ruolo chiave nella cattura del boss Totò Riina, avvenuta il 15 gennaio 1993: all'ex sindaco vennero consegnate dai carabinieri alcune mappe di Palermo, mappe che finirono nelle mani di Bernardo Provenzano; quest'ultimo segnò una serie di indicazioni sui possibili covi dove andare a catturare l'allora reggente di tutta Cosa Nostra. Le mappe, riconsegnate a Ciancimino, furono riconsegnate ai Ros, che riuscirono a catturare Riina nel suo covo in via Bernini a Palermo. Questo fatto pare essere il motivo principale per cui il covo del capo dei capi, subito dopo l'arresto, non verrà perquisito.
Il coinvolgimento nella Trattativa Stato-Mafia
Il 17 marzo 1993, Vito Ciancimino, riferisce al Procuratore di Palermo Giancarlo Caselli dell'incontro avvenuto con i Ros, Mario Mori e Giuseppe De Donno: questi si sarebbero presentati nella sua abitazione romana per chiedere un "resa incondizionata" dopo le stragi di Capaci e di Via D'Amelio. Anni dopo, il figlio Massimo, dichiarerà che in realtà, il primo incontro tra suo padre e i Ros, risale al giugno del 1992, quindi prima della strage di Via D'Amelio. Sentito come teste nel processo per favoreggiamento svolto nei confronti del Gen. Mori e il Col. Mauro Obinu, Ciancimino jr dichiara che i carabinieri del Ros si presentarono dal padre per utilizzarlo come tramite tra lo Stato e la mafia per fermare le stragi: e di tutto conto, la mafia, avrebbe presentato allo stato una serie di richieste, il famoso "papello" (abolizione dell'ergastolo, revoca del 41bis ecc...).
Il Gen. Mori, al contrario di quanto dichiarato da Massimo Ciancimino, sostiene che i numerosi incontri con Don Vito avvennero non prima del 5 agosto 1992.
Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, audito come testimone dalla Procura di Palermo nell'ambito del processo sulla trattativa tra Stato e Mafia, ha dichiarato che nel 1992 fu messo al corrente da Luciano Violante della volontà di Vito Ciancimino di essere ascoltato dalla Commissione Parlamentare antimafia (all'epoca Violante ne era il Presidente).
Bibliografia
- Lo Bianco G. - Rizza Sandra, L'agenda nera della seconda repubblica, Milano 2010
- La Licata Francesco, Storia di Giovanni Falcone, Milano 2013
- Nuzzi Gianluigi, Vaticano S.p.a, Milano 2009
Note
Articolo uscito sul Fatto Quotidiano (28 ottobre 2014)[1]