Strage di Via D'Amelio: differenze tra le versioni
m (Sostituzione testo - "Le stragi di mafia" con "Stragi di Mafia") Etichette: Modifica da mobile Modifica da web per mobile |
m (Sostituzione testo - "Categoria:Stragi di Mafia" con "Categoria:Stragi di mafia") |
||
Riga 63: | Riga 63: | ||
[[Categoria:Stragi di | [[Categoria:Stragi di mafia]] [[Categoria:Processi per la Strage di Via d'Amelio]] |
Versione attuale delle 10:37, 26 ott 2023
La Strage di Via Mariano d'Amelio fu un attentato mafioso ad opera di Cosa Nostra in cui perse la vita il giudice Paolo Borsellino.
Alle 16:58 del 19 luglio 1992 una Fiat 126 imbottita con 100 kg di tritolo parcheggiata sotto l'abitazione della madre del magistrato esplose, dilaniando il giudice e gli uomini della sua scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. I feriti furono 24.
La strage
La dinamica
Secondo la testimonianza di Antonino Vullo, unico agente della scorta sopravvissuto alla strage, la Fiat 126 esplose nel momento in cui Paolo Borsellino alzò la mano per citofonare. La testimonianza di Vullo è stata recentemente confermata dalle parole di Totò Riina, che intercettato in carcere ad Opera ironizzava sul fatto che fosse stato proprio il giudice ad azionare l'autobomba, premendo il tasto del citifono della madre.[1]
Pochi minuti dopo l'esplosione, sul luogo della strage arrivò il deputato ed ex-giudice Giuseppe Ayala che abitava nelle vicinanze. Nel verbale degli agenti della squadra mobile giunti sul posto, si legge che vi erano «decine di auto distrutte dalle fiamme, altre che continuano a bruciare, proiettili che a causa del calore esplodono da soli, gente che urla chiedendo aiuto, nonché alcuni corpi orrendamente dilaniati».
Gli agenti della scorta, secondo la testimonianza di Antonino Caponnetto, avevano già segnalato la pericolosità della via, chiedendo il divieto di parcheggio per garantire la sicurezza del giudice. Tale disposizione restò lettera morta.
Antefatti e possibili cause
Primo possibile movente: la vendetta per il Maxiprocesso
- Per approfondire vedi Maxiprocesso di Palermo
Il 30 gennaio 1992 la sesta sezione penale della Corte di Cassazione aveva confermato le condanne inflitte in primo grado nell'ambito del Maxiprocesso di Palermo, ribaltando così il verdetto di secondo grado. L'evento risultò fatale per Cosa nostra, soprattutto perché intaccava il prestigio della leadership di Salvatore Riina. Riina aveva infatti assicurato ai membri dell'organizzazione che, in virtù dei suoi contatti a livello politico, il verdetto di Cassazione sarebbe stato favorevole a Cosa nostra. Il fallimento della promessa di Riina costituiva dunque un grave colpo alla credibilità del capo, che promise di punire duramente i responsabili: innanzitutto i giudici che avevano istruito il Maxiprocesso, i cui simboli erano Giovanni Falcone e Paolo Borsellino; in secondo luogo i referenti politici di Cosa nostra, responsabili del tradimento del patto con l'organizzazione: prima di tutti Salvo Lima, ucciso infatti il 12 marzo 1992.
Il primo movente individuato inizialmente dagli inquirenti fu la vendetta di Cosa Nostra per l'istruzione del Maxiprocesso.
Il secondo possibile movente: l'attivismo giudiziario per la ricerca della verità sulla strage di Capaci
Dopo la strage di Capaci, Paolo Borsellino si era gettato a capofitto nelle indagini per scoprire la verità sulla morte di Giovanni Falcone. Il suo attivismo in tal senso è stato considerato per anni il movente della Strage di via d'Amelio.
Il terzo possibile movente: la contrarietà alla trattativa Stato-Mafia
Una recente pista giudiziaria ha invece sollevato l'ipotesi che Paolo Borsellino sia stato ucciso perché a conoscenza e contrario alla Trattativa tra lo Stato e Cosa Nostra per mettere fine alle stragi. Secondo Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, la strage è da considerarsi una vera e propria "strage di Stato". Tuttavia, quest'ultima ipotesi è ancora al vaglio degli inquirenti.
Le indagini
Prime indagini
Le prime indagini furono portate avanti da una task force guidata dal questore Arnaldo La Barbera, ex-capo della squadra mobile di Palermo, che aveva basato le indagini sulle dichiarazioni del pentito Vincenzo Scarantino, mafioso della Guadagna che si era autoaccusato di aver rubato la Fiat 126 usata nell'attentato.
Le indagini portarono il 27 gennaio 1996 alla celebrazione del Processo Borsellino primo, alla fine del quale furono condannati lo stesso Scarantino (18 anni di reclusione e 4,5 milioni di lire di multa) e i suoi complici, Giuseppe Orofino, Pietro Scotto e Salvatore Profeta (condannati all'ergastolo, a un anno e mezzo di isolamento diurno e a 13 milioni di lire di multa ciascuno).
Scarantino e Profeta furono riconosciuti colpevoli di aver rubato la Fiat 126, di averla riempita di esplosivo e collocata davanti alla casa della madre di Borsellino. Orofino fu ritenuto colpevole invece di essersi procurato la disponibilità delle targhe e dei documenti di circolazione e di assicurazione falsi che furono apposti sulla 126 per consentirne la sicura circolazione e la collocazione sul luogo della strage. Scotto infine fu ritenuto colpevole di aver manomesso i cavi e gli impianti telefonici del palazzo di via D'Amelio per intercettare le telefonate della madre di Paolo Borsellino, così da conoscere i movimenti del magistrato.
Dalle indagini scaturirono anche il Processo Borsellino bis ed il Processo Borsellino ter.
- Per approfondire vedi: Processi per la Strage di Via d'Amelio
La svolta
Le dichiarazioni di Spatuzza
Nel 2008 il mafioso Gaspare Spatuzza iniziò a collaborare con la giustizia e ricostruì le dinamiche della strage di via D'Amelio, facendo emergere il ruolo fondamentale avuto dalla cosca di Brancaccio-Ciaculli nell'esecuzione dell'attentato e smentendo Scarantino: Spatuzza dichiarò che era stato lui a rubare la Fiat 126 e che questa era stata imbottita di tritolo da una mano esperta estranea a Cosa Nostra.
Nel 2011 il procuratore generale di Caltanissetta, Roberto Scarpinato, chiese e ottenne la scarcerazione di sette persone, condannate all'ergastolo perché accusate di aver fatto parte del commando che entrò in azione in via D'Amelio per la strage del 19 luglio 1992, in quanto risultate estranee ai fatti.
L'ipotesi degli inquirenti attuale è che Scarantino fosse stato indotto ad auto-accusarsi dalla task force guidata dall'allora questore La Barbera, risultato essere, dopo la sua morte, a libro paga dei Servizi segreti con il nome in codice "Catullo".
La nuova fase
Il processo per il depistaggio
- Per approfondire vedi Depistaggio della strage di Via d'Amelio
Le dichiarazioni di Spatuzza hanno portato il 22 marzo 2013 all'apertura di un nuovo processo (il Processo Borsellino quater) presso la Corte d'Assise di Caltanissetta, a carico di Vittorio Tutino, Vincenzo Scarantino, Francesco Andriotta, Calogero Pulci ed il boss Salvatore Madonia. Madonia e Tutino sono accusati di aver svolto un ruolo centrale nella preparazione della strage, mentre gli i falsi pentiti Pulci, Andriotta e Scarantino sono incriminati per calunnia aggravata, in quanto a seguito delle false dichiarazioni rese sono state arrestate sette persone che sono poi risultate non colpevoli.
Il processo è attualmente in corso.
Il mistero del telecomando, Castel Utveggio e le intercettazioni di Riina
Nonostante le sue importanti dichiarazioni, Spatuzza ha dichiarato di non sapere chi del commando abbia premuto il telecomando. Le recenti intercettazioni di Riina, al vaglio degli inquirenti, farebbero credere che ad azionare l'autobomba sia stato proprio il giudice, citofonando alla madre. Dopo lunghe e minuziose indagini, l’ipotesi di Castel Utveggio quale luogo da dove sarebbe stato premuto il telecomando dell'esplosione è stata definitivamente scartata dagli inquirenti.