Bruno Contrada

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Bruno Contrada (Napoli, 2 settembre 1931) è un ex funzionario, agente segreto ed ex poliziotto italiano; è stato dirigente generale della Polizia di Stato, numero tre del Sisde, capo della Mobile di Palermo, e capo della sezione siciliana della Criminalpol. Condannato a 10 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa in via definitiva nel 2007, il 7 luglio 2017 la sentenza è stata dichiarata dalla stessa Corte di Cassazione "ineseguibile e improduttiva di effetti penali", dando seguito alla sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo che aveva condannato l'Italia in quanto prima del 1994, quando la suprema Corte si espresse a sezioni riunite, il reato "era poco chiaro".

Bruno Contrada

A tal proposito, Gian Carlo Caselli, ex-procuratore capo di Palermo che contestò il reato a Contrada, in un'intervista a "la Stampa"[1] ha ribadito: "La Cedu e la Cassazione non prendono in esame i fatti specifici che portano alla responsabilità di Contrada. Quindi non si tratta di un’assoluzione per quanto riguarda i fatti. Che in ogni caso sono e restano gravissimi."

La sentenza di Strasburgo, in sintesi, aveva motivato la sua decisione con il principio giuridico contenuto nell'articolo 7 della Convenzione europea dei diritti umani, per il quale “Nulla poena sine lege” (niente pena senza una legge che la preveda). Un principio che i giudici di Strasburgo poterono richiamare al caso Contrada solo grazie a un errore dei rappresentati dello Stato Italiano, i giuristi Ersilia Spatafora e Paola Accardo, le quali non obiettarono alcunché circa la premessa dei giudici europei che definiva il concorso esterno come “creazione della giurisprudenza“, quando in realtà ha "un'origine normativa", perché scaturisce dalla combinazione tra la norma incriminatrice (l’articolo 416 bis) e l’articolo 110 del codice penale che prevede il concorso in reato. Senza quella contestazione di merito, quindi, la CEDU ha potuto facilmente condannare l’Italia per il caso Contrada ravvisando la violazione dell’art. 7 della Convenzione Europea.

Biografia

Dichiarato vincitore del concorso per esami per vice-Commissario di polizia in prova, indetto il 1° Giugno 1957, Bruno Contrada, dopo avere prestato servizio per il periodo di prova presso la Questura di Latina, proveniente dall'Istituto Superiore della Polizia di Stato di Roma, il 24 dicembre 1959 venne nominato Vice-Commissario nel ruolo della carriera direttiva dell'Amministrazione della Polizia di Stato: per il periodo compreso tra il 25 luglio 1959 e il 1° agosto 1961 venne assegnato, quale funzionario addetto, alla Questura di Latina, prima all'Ufficio Politico, poi alla III Divisione e infine alla Squadra Mobile; dal 1° agosto 1961 al 4 novembre 1962 diresse il Commissariato di Sezze Romano, in provincia di Latina, con la qualifica di Commissario aggiunto, conseguita il 23 giugno 1961.

Il 4 novembre venne inviato in missione a Palermo, trasferimento reso definitivo dal 5 febbraio 1963, dove venne assegnato alla Squadra Mobile con diversi incarichi, prima come dirigente della Volante, poi delle sezioni Antimafia e Investigativa, infine, dal 1° settembre 1973, come Dirigente; in questa veste fu lui a raccogliere la testimonianza del primo pentito di Cosa Nostra Leonardo Vitale, che 10 anni prima di Tommaso Buscetta aveva consegnato agli inquirenti una mappa precisa delle famiglie mafiose palermitane e della struttura interna dell'organizzazione.

Si occupò anche della scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, rapito e ucciso dalla mafia nel 1970: per Contrada e il suo vice Boris Giuliano la scomparsa era legata alle indagini sull'attentato in cui morì Enrico Mattei, presidente dell'ENI, ufficialmente morto in un incidente aereo, mentre per il generale Carlo Alberto dalla Chiesa la pista più probabile erano le sue indagini sul traffico di droga delle cosche palermitane; al caso lavorava anche il colonnello dei Carabinieri Giuseppe Russo, poi ucciso nel 1976 dai Corleonesi. Nel 1976 Contrada lasciò a Giuliano la guida della Squadra Mobile per passare alla Criminalpol e sei anni dopo andò al SISDE come coordinatore dei centri siciliano e sardo; nel settembre 1982 venne nominato dal prefetto Emanuele De Francesco capo di Gabinetto dell'Alto Commissario per la lotta alla mafia, dove restò fino al 1985, per poi andare l'anno successivo al Reparto Operativo della Direzione del Sisde, riorganizzandone le funzioni e assegnandogli una specifica competenza antimafia, cosa che creò un conflitto di attribuzione con la preesistente Direzione Investigativa Antimafia.

Dal 31 maggio 1987 assunse la direzione del Coordinamento dei Gruppi di Ricerca latitanti del SISDE, carica da cui fu temporaneamente sospeso dall'8 agosto 1989 per essere assegnato al Servizio Ispettivo, salvo poi poi tornarvi il 6 marzo 1990.

Il 26 marzo 1991 Contrada venne nominato Dirigente Generale della Polizia di Stato, sempre in posizione distaccata presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Il 1° luglio 1992 il pentito Gaspare Mutolo fece per la prima volta il suo nome a Paolo Borsellino, durante il primo interrogatorio dopo la sua decisione di collaborare con la giustizia. Circostanza confermata dallo stesso Mutolo nell'udienza del 21 febbraio 1996 per il processo sulla Strage di Via d'Amelio e ribadita anche recentemente in quello sulla Trattativa Stato-Mafia. Durante quell'interrogatorio Borsellino ricevette una telefonata in cui il capo della Polizia Vincenzo Parisi lo invitava al ministero degli Interni per incontrare il neo-ministro Nicola Mancino, circostanza confermata dall'agenda del magistrato, che segnò "1° luglio ore 19:30: Mancino"[2]; al ministero incontrò anche Bruno Contrada, che rivelò al magistrato di essere a conoscenza dell'interrogatorio segreto con il pentito: "so che è con Mutolo, me lo saluti". Sempre Mutolo riferì che Borsellino, di ritorno dopo due ore, era "tutto arrabbiato, agitato, preoccupato, ma che addirittura fumava così distrattamente che aveva due sigarette in mano."[3] Anni dopo la moglie di Borsellino, Agnese, in una appello lanciato dalla trasmissione di Michele Santoro "Servizio Pubblico", chiese al ministro degli Interni: "Perché Paolo rientrato la sera di quello stesso giorno da Roma, mi disse che aveva respirato aria di morte?"[4]

Il 24 dicembre 1992 Contrada venne arrestato per concorso esterno in associazione mafiosa, sulla base delle rivelazioni di diversi collaboratori di giustizia.

Il processo Contrada

Il processo si aprì l'11 febbraio 1994 di fronte alla V sezione del Tribunale di Palermo, presieduta dal giudice Francesco Ingargiola con giudici a latere Salvatore Barresi (estensore della sentenza di 1° grado) e Donatella Puleo.

Il 14 febbraio il GIP emise un decreto di giudizio immediato su richiesta dello stesso Contrada, chiamato a rispondere del reato di concorso esterno in associazione mafiosa in base agli artt.110-416, con le aggravanti di cui ai commi IV e V, e artt.110-416bis, con le aggravanti di cui ai commi IV, V e VI[5], per avere, dapprima come funzionario di polizia e successivamente come Dirigente dell'Alto Commissariato per il coordinamento della lotta alla mafia e del SISDE, contribuito sistematicamente alle attività ed agli scopi criminali di "Cosa Nostra", in particolare fornendo ad esponenti della "Commissione Provinciale" di Palermo, notizie riservate riguardanti indagini e operazioni di Polizia da svolgere nei confronti dei medesimi e di altri appartenenti all'associazione.

La fase dibattimentale

All'udienza del 12 aprile 1994, compiuto l'accertamento della regolare costituzione delle parti, il Tribunale procedette all'esame delle questioni preliminari concernenti il contenuto del fascicolo per il dibattimento.

In particolare il Pubblico Ministero Antonio Ingroia chiese e ottenne l'inserimento di alcuni atti c.d. "irripetibili", nonché di alcuni atti ottenuti tramite rogatoria internazionale, formulava richiesta, cui non si opponeva la difesa, di inserimento nel fascicolo del dibattimento di alcuni atti irripetibili nonché di alcuni atti assunti a seguito di commissione rogatoria internazionale, per mera omissione non inseriti nel fascicolo dal GIP.

Risolte le questioni preliminari, il Presidente dichiarò aperto il dibattimento e il PM procedette all'esposizione introduttiva dei fatti, affermando che il processo prendeva le mosse dalle dichiarazioni rese da alcuni collaboratori di giustizia, in particolare Tommaso Buscetta, Gaspare Mutolo, Giuseppe Marchese, Rosario Spatola, Francesco Marino Mannoia, Salvatore Cancemi e Pietro Scavuzzo, i quali accusavano Contrada di avere mantenuto, fin dal periodo in cui operava presso gli uffici investigativi della Questura di Palermo, stabili rapporti con esponenti di spicco di Cosa Nostra e di avere posto in essere una continuativa condotta di agevolazione nei loro confronti, realizzata avvalendosi delle notizie a lui note grazie agli incarichi ricoperti; il PM sostenne anche che le dichiarazioni dei pentiti avevano trovato conferma di veridicità in una complessa serie di riscontri di natura obiettiva acquisiti all'esito delle indagini e che il quadro probatorio si era arricchito anche di numerose altre acquisizioni di natura documentale e testimoniale confermative delle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia.

Nel corso della fase dibattimentale, protrattasi per 165 udienze, il Tribunale ascoltò come testimoni i pentiti sopra citati, oltre a 50 testimoni dell'accusa e 144 della difesa, oltre ad altri 58 richiesti a vario titolo da entrambe le parti[6].

Nell'udienza del 13 giugno 1995 Contrada venne colto da un malore e il Tribunale ne ordinò il ricovero presso l'ospedale Civico di Palermo, disponendo l'acquisizione delle relazioni mediche sulle sue condizioni di salute. All'udienza del 28 luglio la difesa formulò l'istanza di revoca della misura cautelare in carcere, sia per insussistenza delle esigenze cautelari sia per le condizioni di salute di Contrada, ottenendola tre giorni dopo.

All'udienza del 23 novembre il PM Antonio Ingroia iniziò a illustrare le proprie conclusioni, concludendo dopo 21 udienze il 19 gennaio 1996, chiedendo una pena di 12 anni di reclusione[7].

La difesa iniziò a illustrare le proprie conclusioni all'udienza del 7 febbraio, concludendo dopo 22 udienze il 29 marzo, con la richiesta di assoluzione dell'imputato da tutte le imputazioni "perché il fatto non sussiste".

Conclusione

Il 5 aprile Contrada prese la parole per un ultimo intervento difensivo, dopo il quale il Presidente dichiarò chiuso il dibattimento.

Alla fine della Camera di Consiglio Contrada fu condannato a dieci anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa, nonché al pagamento delle spese processuali e a quelle relative al proprio mantenimento in carcere durante la custodia cautelare, nonché all'interdizione perpetua dai pubblici uffici.

Contrada fu riconosciuto colpevole di aver reso, pur non facendo parte della struttura organizzativa di “Cosa Nostra” e rimanendovi esterno, "un contributo peculiarmente efficace in relazione alle funzioni pubbliche esercitate, estrinsecatosi in molteplici singole condotte di agevolazione e rafforzamento dell'associazione mafiosa per un notevole arco temporale"[8].

La sentenza affermò che Contrada[9]:

  • è stata “persona disponibile” nei confronti di “Cosa Nostra” ed ha intrattenuto rapporti con diversi mafiosi, in particolare con Rosario Riccobono e Stefano Bontate;
  • ha posto in essere specifiche condotte di favoritismo nei confronti di mafiosi consistenti in agevolazioni: 1) nel rilascio di patenti a Stefano Bontate e Giuseppe Greco, secondo quanto riferito dai collaboratori di giustizia Salvatore Cancemi e Francesco Marino Mannoia; 2) nel rilascio di porti d’arma ai fratelli Caro secondo quanto riferito dal collaboratore Rosario Spatola;
  • ha realizzato condotte di agevolazione della latitanza di mafiosi: in favore di Rosario Riccobono, secondo quanto dichiarato da Tommaso Buscetta e Gaspare Mutolo, ed anche in favore di esponenti dell’area corleonese e dello stesso Salvatore Riina, secondo quanto dichiarato da Giuseppe Marchese che ha riferito anche del privilegiato rapporto che l'imputato intratteneva con Michele e Salvatore Greco;
  • ha fornito all'organizzazione mafiosa notizie afferenti ad indagini di P.G., di cui era venuto a conoscenza in relazione ai suoi incarichi istituzionali: al riguardo vanno ricordate le informazioni sulle operazioni interforze realizzate nel trapanese su cui ha riferito Rosario Spatola, la comunicazione in ordine alla telefonata anonima sugli autori dell'omicidio Tagliavia di cui ha detto Giuseppe Marchese, l'episodio riguardante la comunicazione a Rosario Riccobono dell'informale denunzia delle estorsioni subite dal costruttore Gaetano Siracusa riferito da Gaspare Mutolo;
  • ha avuto incontri diretti con mafiosi: come Rosario Riccobono, riferito da Rosario Spatola, e come Calogero Musso, mafioso del trapanese facente parte di una cosca alleata di Salvatore Riina, del quale ha parlato Pietro Scavuzzo.

Si legge poi nella sentenza che la fase dibattimentale permise di accertare altre condotte[10], confermandole da fonti testimoniali e documentali assolutamente autonome dalle prime, in particolare:

  • specifiche condotte di favoritismo nei confronti di indagati mafiosi: si veda l'episodio del rinnovo della licenza del porto di pistola ad Alessandro Vanni Calvello nonchè l’incontro concesso tempestivamente nei locali dell’Alto Commissario ad Antonino Salvo;
  • condotte di agevolazione della latitanza di mafiosi e di soggetti in stretti rapporti criminali con l'organizzazione mafiosa: vicenda Gentile in relazione alla latitanza del mafioso Salvatore Inzerillo e gli episodi relativi all'agevolazione della fuga dall'Italia di Oliviero Tognoli e di John Gambino;
  • condotte di interferenza in indagini giudiziarie riguardanti fatti di mafia al fine di deviarne il corso o di comunicare all'organizzazione mafiosa notizie utili: l'episodio delle intimidazioni alla vedova Parisi e quello attinente alle indagini sui possibili collegamenti tra gli omicidi Giuliano e Ambrosoli;
  • comportamenti di intimidazione e di freno alle indagini anti-mafia posti in essere nei confronti di funzionari di Polizia: vedi interventi sui funzionari di P.S. Gentile-Montalbano e Marcello Immordino.

Ulteriori gradi di giudizio

Primo Appello

Il primo processo di Appello si concluse il 4 maggio 2001 con un'assoluzione per Contrada. La Corte di Appello, infatti, pur condividendo i parametri di diagnosi tecnico-giuridica assunti dal Tribunale di Palermo, ritenne di non poter confermare la sentenza in primo luogo perché le dichiarazioni dei pentiti non avevano portato a fatti dotati di "necessaria specificità", in secondo luogo perché non era stata presa in considerazione la "particolare condizione professionale dell'imputato", funzionario di polizia a lungo impegnato in indagini antimafia anche contro i suoi principali accusatori[11].

In sostanza, la sentenza di appello, sebbene rilevasse delle anomalie comportamentali di Contrada (in ipotesi censurabili in separata sede disciplinare) non considerava assistite del sufficiente peso probatorio sia le dichiarazioni dei pentiti sia le altre fonti utilizzate dal tribunale[12].

Primo pronunciamento della Cassazione

Il 12 dicembre 2002 a Corte di Cassazione, con sentenza pronunciata dalla II sezione penale, riteneva fondato il ricorso del pubblico ministero e annullava con rinvio per nuovo giudizio la sentenza d'appello del 4 maggio per la "radicale carenza della struttura normativa della sentenza"[13].

Le carenze motivazionali correlate a deficitarie o contraddittorie valutazioni del materiale probatorio palesate nella sentenza d'appello, unite a evidenti errori di diritto (per tutti: a fronte della pur ritenuta "sincerità" delle dichiarazioni dei pentiti, le stesse furono ritenute inidonee a superare il vaglio di attendibilità probatoria, avallando l'ipotesi della "sindrome vendicatoria") furono alla base dell'annullamento della prima sentenza di appello.

Secondo processo d'appello

Il nuovo processo d'appello iniziò l'11 dicembre 2003 e vide il contributo di un nuovo collaboratore di giustizia, Antonino Giuffrè, capo mandamento della famiglia mafiosa di Caccamo, che parlò anche di un episodio specifico del coinvolgimento di Contrada nella latitanza di Totò Riina[14].

Il 25 febbraio 2006 la Corte confermò integralmente la sentenza di primo grado del 5 aprile 1996.

La sentenza definitiva di condanna

Il 10 maggio 2007 la Corte di Cassazione, presidente Giorgio Lattanzi, rigettò il ricorso dei difensori di Contrada e confermò la sentenza d'appello, condannandolo anche al pagamento delle spese processuali. L'ex-numero tre del SISDE venne così tradotto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta.

Dopo il processo

La richiesta di grazia e di differimento della pena

A fine dicembre 2007 l'avvocato difensore di Contrada, Giuseppe Lipera, inviò al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano una "accorata supplica" al fine di sollecitarlo a concedere la grazia in mancanza di un'esplicita richiesta da parte dell'interessato che, ritenendosi innocente, non intendeva inoltrarla.

La richiesta arrivò a causa delle presunte condizioni mediche precarie dell'imputato, che il 28 dicembre venne trasferito al Cardarelli di Napoli su disposizione del giudice di sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere per motivi di salute. Il suo avvocato dichiarò alla stampa: "Adesso spero che il ministero della Giustizia si attivi velocemente per le pratiche necessarie alla concessione della grazia per permettere a un servitore dello Stato gravemente malato di poter tornare a casa propria [...] A Mastella dico: non perdete tempo, se muore l'avrete sulla coscienza. Il magistrato di sorveglianza sta finalmente capendo che il mio cliente può morire da un momento all'altro. La verità è che deve tornare a casa.[15]"

Ciononostante, il magistrato di sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere rigettò l'istanza di differimento della pena proposta per Bruno Contrada, dopo aver esaminato le relative perizie mediche[16].

Il Presidente della Repubblica, dopo aver appreso che la lettera dell'avvocato Lipera non fosse una richiesta ufficiale di concessione della grazia, sospese l'iter precedentemente avviato, anche alla luce dell'annunciata richiesta di revisione del processo[17].

La richiesta dell'eutanasia e la concessione dei domiciliari nel 2008

Il 16 aprile 2008 contrada chiese l'eutanasia con una richiesta al giudice tutelare del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere presentata dalla sorella, che spiegò la volontà di morire dell'ex-numero due del SISDE perché «questa sembra l'unica strada percorribile per mettere fine alle sue infinite pene»[18].

Il 21 luglio dello stesso anno i suoi legali diffusero la notizia della perdita di ben 22 chili da parte di Contrada, per dimostrare l'incompatibilità dell'ex-numero 2 del Sisde col regime carcerario, omettendo di dichiarare però che il dimagrimento del detenuto era derivante dal suo rifiuto di nutrirsi. Il 24 luglio gli vennero concessi gli arresti domiciliari per motivi di salute per una durata di 6 mesi, con l'obbligo di domicilio, negando la possibilità di recarsi a Palermo in quanto i giudici confermarono la sua pericolosità sociale.

Fine pena

L'11 ottobre 2012 Contrada venne scarcerato: dei 10 anni di pena, ne scontò 4 in carcere e 4 ai domiciliari, mentre i restanti 2 gli vennero scontati per buona condotta.

Le sentenze della CEDU

L'11 febbraio 2014 la Corte europea dei diritti dell'uomo (CEDU), organo del Consiglio d'Europa, condannò lo Stato italiano per la ripetuta mancata concessione dei domiciliari a Contrada sino al luglio 2008, pur se gravemente malato e malgrado quella che la corte definisce "la palese incompatibilità del suo stato di salute col regime carcerario", in quanto violazione dell'art.3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e di cui l'Italia è firmataria e a cui la sua giurisdizione è vincolata. Lo Stato fu condannato a pagare 10mila euro di danni morali e 5mila euro per il rimborso spese.

Il 13 aprile dell'anno successivo la CEDU condannò poi lo Stato italiano a un risarcimento di 10mila euro per danni morali e 2500 per le spese processuali, in quanto secondo la Corte, Contrada non doveva essere né processato né condannato per concorso esterno in associazione mafiosa dato che all'epoca dei fatti contestati (1979-1988) il reato non era codificato e "l'accusa di concorso esterno non era sufficientemente chiara". Secondo la Corte l'Italia ha violato l'articolo 7 della convenzione dei diritti dell'uomo, che afferma il principio "nulla poena sine lege", cioè che «nessuno può essere condannato per un'azione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale». L'unico reato contestabile, se ritenuto colpevole, sarebbe stato quello di favoreggiamento personale. Nel luglio 2015 il governo italiano presentò ricorso alla Grande Chambre, che però il 15 settembre lo respinse.

Secondo Giancarlo Caselli, "la tesi non convince, posto che il concorso esterno compare addirittura in sentenze della Corte di Cassazione risalenti all'800 ed è poi stato ripreso in molte altre successive (che non sono un fuor d'opera rispetto alla mafia quando trattano di cospirazione politica o terrorismo, perché si tratta pur sempre, ontologicamente, di associazioni criminali e di partecipazione esterna, per cui la struttura è identica e i precedenti ci sono). In realtà, le oscillazioni giurisprudenziali sono sopravvenute successivamente, ben dopo i fatti contestati al dott. Contrada, e cioè a partire dal 1991: quando l’introduzione della speciale aggravante mafiosa ha dato luogo al c.d. “favoreggiamento mafioso”, a fronte del quale si è ipotizzato che non potesse esservi più spazio autonomo per il concorso esterno, in quanto assorbito dal favoreggiamento. Quindi, il contrario di quel che ha scritto Strasburgo"[19].

La Richiesta di Revisione

In seguito alla pronuncia europea, Contrada presentò per la quarta volta richiesta di revisione del processo. Per effetto della pronuncia della Corte costituzionale sul caso Dorigo, la Cassazione ammise automaticamente la richiesta al tribunale di Caltanissetta, che accolse l'istanza di revisione riservandosi di giudicare in seguito. Il 18 novembre 2015 la Corte respinse la richiesta, confermando la condanna definitiva.

La nuova sentenza della Cassazione e la revoca della condanna

Contrada e il suo legale Stefano Giordano presentarono quindi una nuova richiesta alla Corte d'Appello di Palermo nell'ottobre 2016, affinché venisse recepita la sentenza della CEDU e fosse revocata la condanna, ma il 27 ottobre la Corte respinse la richiesta di revoca, non riconoscendo le motivazioni giurisprudenziali della CEDU, dichiarando la revoca inammissibile perché la corte europea si baserebbe su «un'interpretazione comunitaria di fatto incompatibile con l'ordinamento italiano».

Contrada così si rivolse alle sezione riunite della Cassazione, che il 7 luglio 2017 ha revocato, tramite annullamento senza rinvio, la condanna per concorso esterno in associazione mafiosa a Contrada, dichiarandola "ineseguibile e improduttiva di effetti penali" poiché il fatto non era previsto come reato (articolo 530 c.p.p. comma 1), in accoglimento della sentenza di Strasburgo.

Le reazioni alla revoca

La revoca della condanna portò a diverse polemiche, soprattutto per il fatto che su diversi media si spacciò l'annullamento per assoluzione, nonostante i fatti alla base della condanna definitiva non fossero stati smentiti né dalla CEDU né dalla nuova pronuncia della Cassazione.

Secondo Marco Travaglio la sentenza riporta l'antimafia all'età della pietra[20], direttore de "Il Fatto Quotidiano": "Ora, con buona pace della Corte di Strasburgo che la mafia non l'ha mai vista neppure in cartolina, e della nostra Cassazione che invece dovrebbe saperne qualcosa, il reato di concorso esterno non è un'invenzione: è sempre esistito, come il concorso in omicidio, in rapina, in truffa, in corruzione ecc. Nel 1875, quando la Sicilia aveva una Cassazione tutta sua e la mafia si chiamava brigantaggio, già venivano condannati i suoi concorrenti esterni agrigentini per “complicità in associazione di malfattori”. Nel 1982 la legge Rognoni-La Torre creò finalmente il reato di associazione mafiosa (art. 416-bis del Codice penale) e subito dopo, nel 1987, il pool di Falcone e Borsellino contestò il concorso esterno in associazione mafiosa ai colletti bianchi di Cosa Nostra nella sentenza-ordinanza del maxiprocesso-ter."

Secondo Attilio Bolzoni de "la Repubblica", le motivazioni del caso Contrada possono aprire a una revisione del processo anche per Marcello Dell'Utri, braccio destro di Silvio Berlusconi: "Proprio partendo da queste motivazioni c'è l'esultanza anche degli avvocati di Marcello Dell'Utri. E ben si comprende. I giudici della Cassazione hanno ritenuto provate le collusioni del braccio destro di Berlusconi solo dal 1977 al 1992, confermando l'assoluzione della Corte di Appello per le accuse successive al 1992. Nei tempi, il caso Contrada sembra una fotocopia del caso Dell'Utri. Se le cose stanno davvero così — e cioè se le motivazioni della Cassazione hanno seguito gli indirizzi della Corte Europea — anche l'ex senatore in carcere dal 2014 può legittimamente sperare in una svolta.[21]"

Note

Bibliografia

  • Giorgio Lattanzi, Sentenza di Cassazione, 10 maggio 2007
  • Salvatore Scaduti, Sentenza di Appello, Corte di Appello di Palermo - I sezione penale, 25 febbraio 2006
  • Francesco Ingargiola, Sentenza n.338/1996, Tribunale di Palermo - V Sezione Penale, 5 aprile 1996