Cosa Nostra

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«La mafia, lo ripeto ancora una volta, non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano. Vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori, complici, informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli maestri cantori, gente intimidita o ricattata che appartiene a tutti gli strati della società. Questo è il terreno di coltura di Cosa Nostra con tutto quello che comporta di implicazioni dirette o indirette, consapevoli o no, volontarie o obbligate, che spesso godono del consenso della popolazione».
(Giovanni Falcone)[1]


Con il termine Cosa Nostra si intende l'organizzazione criminale di stampo mafioso nata in Sicilia, la più famosa e fino agli inizi degli anni '90 la più potente tra le organizzazioni mafiose a livello internazionale. A lungo identificata con la parola di origine siciliana "Mafia", Cosa Nostra ha giocato un ruolo e ha avuto un peso nelle vicende politiche dell'Italia unita, sin dalle origini che nessun'altra organizzazione mafiosa può vantare.

Origine del nome

La prima volta che comparve la parola «mafia» in Italia fu nel 1863, durante lo spettacolo teatrale “I mafiusi della Vicaria” di Giuseppe Rizzotto e Gaetano Mosca. La piéce teatrale ebbe molto successo all’epoca, con oltre trecento repliche nella sola Palermo e addirittura Re Umberto I tra gli spettatori a Napoli: il protagonista, Gioacchino Funciazza, dominava sugli altri mafiusi, facendosi pagare “u pizzu” per dormire su un giaciglio, ma al tempo stesso difendeva gli oppressi dal nuovo Stato e tutti quelli che chiedevano la sua protezione. Non solo, il boss rispettava i morti, battezzava i nuovi affiliati, promuoveva i migliori della banda. Tutte cose considerate all’epoca «onorevoli», ma il mafioso non era ancora «uomo d’onore» come sarebbe stato inteso decenni dopo. L’aggettivo «mafioso» era piuttosto sinonimo di «uomo coraggioso», mentre diventava «bella donna» se declinato al femminile.

Tant’è che Rizzotto fu aspramente criticato, in primo luogo dall’etnologo Giuseppe Pitrè, che lo accusava di aver attribuito valore negativo alla parola. «La mafia non è setta né associazione, non ha regolamenti né statuti.», sosteneva lo studioso, «Il mafioso non è un ladro, non è un malandrino; e se nella nuova fortuna toccata alla parola, la qualità di mafioso è stata applicata al ladro, ed al malandrino, ciò è perché il non sempre colto pubblico non ha avuto tempo di ragionare sul valore della parola, né s’è curato di sapere che nel modo di sentire del ladro e del malandrino il mafioso è soltanto un uomo coraggioso e valente, che non porta mosca sul naso, nel qual senso l’essere mafioso è necessario, anzi indispensabile. La mafia è la coscienza del proprio essere, l’esagerato concetto della forza individuale, unica e sola arbitra di ogni contrasto, di ogni urto d’interessi e d’idee; donde la insofferenza della superiorità e peggio ancora della prepotenza altrui. Il mafioso vuol essere rispettato e rispetta quasi sempre. Se è offeso non si rimette alla legge, alla giustizia, ma sa farsi personalmente ragione da sé, e quando non ne ha la forza, col mezzo di altri del medesimo sentire di lui»[2].

La concezione di Pitrè piaceva particolarmente anche a Luciano Leggio[3], che la riprese durante una famosa intervista a Enzo Biagi[4]:

Biagi: «Che cos’è la Mafia secondo lei, è una cosa riprovevole?»
Leggio: «[…] Leggendo vari autori che hanno parlato su ‘sta parola, mafia, e rifacendomi al Pitrè che è uno dei grandi cultori della lingua antica siciliana, mafia doveva essere una parola di bellezza. Bellezza non solo fisica, ma anche bellezza come spiritualità, nel senso che se incontro una bella donna diciamo “Mafiusa sta fimmina” […]. Era un complimento e un fenomeno di bellezza. »
Biagi: «Se è così lei non si offende se io dico che è mafioso.»
Leggio: «No, non mi offendo, non solo. Semplicemente mi duole perché credo che non ho tutta quella ricchezza spirituale e fisica di esserlo, un mafioso»

Una ricchezza spirituale e fisica che evidentemente non mancava a un illustre cittadino palermitano come era Vittorio Emanuele Orlando, già presidente del Consiglio dei Ministri (1917-1919) e Ministro degli Interni (1916-1919), che in un comizio al Teatro Massimo di Palermo arrivò a dichiarare che «se per mafia si intende il senso dell'onore portato fino all'esagerazione, l'insofferenza contro ogni prepotenza e sopraffazione, portata sino al parossismo, la generosità che fronteggia il forte ma indulge al debole, la fedeltà alle amicizie, più forte di tutto, anche della morte. Se per mafia si intendono questi sentimenti, e questi atteggiamenti, sia pure con i loro eccessi, allora in tal senso si tratta di contrassegni individuali dell'anima siciliana, e mafioso mi dichiaro io e sono fiero di esserlo!»[5].

Cesare Terranova, capo dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, dichiarò nel 1965: «La mafia non è un concetto astratto, non è uno stato d’animo, ma è criminalità organizzata, efficiente e pericolosa, articolata in aggregati o gruppi o “famiglie” o meglio ancora “cosche”. […] Esiste una sola mafia, né vecchia né giovane, né buona né cattiva, esiste la mafia che è associazione delinquenziale»[6]

Questa dichiarazione metteva in luce chiaramente l’importanza della cellula organizzativa base mafiosa, la famiglia, oltre a sottolineare l’infondatezza della suddivisione tra vecchia e nuova mafia. Tale distinzione (vecchia mafia, portatrice di valori tradizionali e in un certo senso positivi, contrapposta ad una nuova mafia degenerata e traditrice di quegli stessi principi) ritrae in modo erroneo l’organizzazione criminale, che va forse vista come un continuum di vicende criminali in cui raramente si può trovare qualcosa di positivo (Moiraghi, 2013).

«E’ una società, un’organizzazione, a modo suo, giuridica»[7], affermò più tardi Giovanni Falcone. Eppure l’organizzazione venne riconosciuta tale solo con la sentenza di Cassazione del Maxiprocesso del 30 gennaio 1992.

Il termine “Cosa Nostra” entrò definitivamente nel dibattito pubblico italiano solo in seguito alle dichiarazioni di Tommaso Buscetta rese al Maxiprocesso e alla già citata sentenza di Cassazione che ne confermò la validità e veridicità. Prima di lui, già negli anni '60 il pentito italo-americano Joe Valachi aveva parlato di “Cosa Nostra” in riferimento all’organizzazione mafiosa americana di derivazione siciliana, ma il termine stentò ad affermarsi in Italia e fu duramente contestato anche negli USA.

Storia ed evoluzione

Le origini

Nel 1860 Giuseppe Garibaldi con le sue camicie rosse invase la Sicilia per annetterla al regno d’Italia, sconfiggendo l’esercito borbonico. La spedizione ebbe un rapido successo poiché lo sbarco innescò una rivolta interna che non lasciò scampo ai Borboni. Ma quale fu la causa del disagio che spinse i siciliani ad appoggiare i garibaldini? Con la legge del 4 agosto 1812, il Parlamento siciliano aveva formalmente abolito il sistema feudale, che, però, continuò ancora per oltre un secolo ad essere la struttura socio-economica portante della Sicilia. I baroni che prima gestivano immensi feudi in quanto vassalli del re continuarono lo stesso a spadroneggiarvi in quanto proprietari. Questo modello basato sul latifondo aveva favorito la miseria della popolazione e la debolezza delle classi sociali diverse da quella possidente, unitamente alla diffusione del particolarismo (la tendenza a curarsi solo dei propri interessi, spesso a danno degli interessi altrui), del familismo (concezione che assolutizza i legami familiari arrivando all'estraniamento dalle responsabilità sociali) e del clientelismo (sistema di relazioni tra persone che, accomunate da motivi di interesse, si scambiano favori, spesso a danno di altri).

Il popolo siciliano che sperava in un cambiamento sociale con l’annessione al regno d’Italia rimase però deluso. I primi governi italiani (quelli della Destra storica, aventi ministri solo settentrionali) vollero la sottomissione senza condizioni al nuovo Stato, imponendo il servizio di leva obbligatoria (che privò le famiglie contadine di braccia giovani) e insaprendo le tasse (tra cui quella odiosa sul macinato). Nei primi dieci anni le politiche governative fecero nascere la questione meridionale: investimenti pubblici vennero concessi quasi eslusivamente a industrie del nord; la redistrubuzione delle terre fu iniqua; fu ritirato il denaro metallico e sostituito con cartamoneta, il che consentì l’avvio di una spirale inflazionistica; Fu emarginato e poi smembrato il Banco delle Due Sicilie.

Il risultato fu il peggioramento socio-economico dell’intero Meridione. Anche sul fronte politico l’integrazione fu problematica: si voleva inserire siciliani fra i ministri del re, ma gli uomini politici locali praticavano l’omicidio e il sequestro contro i loro avversari. In Sicilia c’erano, inoltre, i rivoluzionari repubblicani che avevano legami con bande semi-criminali, mentre gli aristocratici e il clero erano ancora fedeli ai Borboni o sposavano la linea indipendentista. L’insieme di tutti questi fattori fece si che i primi quindici anni dell’unità furono contrassegnati da numerose rivolte in Sicilia.

La prima nel 1862 per mano dello stesso Garibaldi che, preoccupato della situazione del nuovo regno, scelse la Sicilia come piattaforma per una nuova invasione della penisola. L’obiettivo era Roma, governata dal Papa, ma un esercito italiano lo fermò sull'Aspromonte. Il governo italiano allora instaurò la legge marziale in tutta l’isola, diventando un precedente importante per gli anni a venire. Non volendo o non potendo trovare l’appoggio per pacificare la Sicilia con mezzi politici, si fece ricorso alla soluzione militare (assedi di città, arresti di massa, incarcerazioni senza processo). La situazione non migliorò, tanto che nel 1866 ci fu un’altra rivolta a Palermo, simile a quella del 1860 contro i Borboni. I tumulti e le repressioni si attenuarono solo nel 1876, quando politici siciliani entrarono nella compagine del governo.

Fu in questo periodo che va dal 1860 al 1876 si affermò la Mafia, agraria e incardinata sul latifondo, dove spiccava la figura del gabelloto mafioso, che svolgeva un ruolo di intermediazione tra comunità locale e Stato centrale, tra manodopera contadina e proprietari terrieri. Ottenuti in gabella gli ex feudi dei baroni, poco interessati a operarvi trasformazioni produttive, i primi mafiosi li dividevano in piccoli lotti, subaffittandoli ai contadini poveri e ricavando consistenti guadagni. I gabelloti divennero potenti e in assenza dello Stato gestirono da soli il monopolio della violenza (i piccoli criminali sparirono, c’era spazio solo per i mafiosi), creando proprie forze armate, i cosiddetti campieri.

Differenze col brigantaggio

Parallelamente in Sicilia si sviluppò il fenomeno del brigantaggio che però si distingueva dalla mafia per il fatto che puntava al cambiamento sociale e di conseguenza attentavano alla proprietà privata e alla sicurezza dei baroni, mentre i mafiosi invece offrivano loro “protezione”. Brigantaggio e mafia erano fenomeni antagonisti che però finirono per entrare in un rapporto simbiotico: i briganti concorrevano a creare tra le vittime una forte domanda di protezione sul territorio e i mafiosi approfittavano di questa circostanza per offrire la loro ”sicurezza”, prestandola a condizioni a prima vista accettabili. La violenza del mafioso per quanto costosa non era assolutamente da paragonare da paragonare a quella del brigante. Il brigantaggio, fenomeno delle classi subalterne, è stato tollerato e strumentalizzato dalle classi dominanti fino a quando tornò utile, per poi essere represso duramente (ciò avvenne quando la borghesia mafiosa andò al potere nel 1876).

La mafia invece, espressione delle classi dirigenti, tanto che continua ad esistere ancora oggi, seppe costruire e mantenere un rapporto organico e di connivenza col potere politico. La mafia in principio adottò una strategia di boicottaggio nei confronti dello Stato, ma ben presto però i mafiosi capirono che la politica cercava di usarli come strumento di governo locale: prima la Destra, che li usò per ripristinare l’ordine; poi la Sinistra dal 1876, quando il governo Minghetti perse la fiducia dei politici siciliani a causa della proposta di una commissione parlamentare su mafia e banditismo che venne considerata un oltraggio alla Sicilia. La Sinistra storica da questo punto di vista si rassegnò alla collaborazione con i politici mafiosi, pur di formare un governo. Da quel momento la mafia cominciò quindi ad affondare le mani nel mercato romano dei favori elettorali. Da una strategia di boicottaggio, quindi, si passò ad una forma di sfruttamento dello Stato. Entrambi gli schieramenti politici usarono la mafia come strumento di governo locale, solo in maniera differente. Il modello introdotto dalla Sinistra persiste ancora oggi. L’analisi più lucida sulla nascita della mafia ce la dà Leopoldo Franchetti, intellettuale toscano: "la mafia nacque con la caduta del feudalesimo e l’arrivo del capitalismo che necessitava di uno Stato che garantisse ai vari imprenditori sicurezza attraverso il monopolio della violenza. Il regno d’Italia fallì e così i baroni e i loro scagnozzi cominciarono a prendere il controllo dell’economia (racket estorsione/protezione) e della politica (corruzione)"[8].

Il caso Galati e la mafia dell'Uditore

Il primo caso di mafia riguardò la vicenda del chirurgo Gaspare Galati che, ereditando nel 1872 il fondo Riella (un limoneto) appena fuori Palermo, dovette fare i conti con il guardiano della tenuta, Benedetto Carollo. Mafioso di primo rango, l'uomo praticava la prima forma di racket della mafia siciliana: rubava limoni affinché le rendite si abbassassero, così facendo avrebbe potuto comprare a basso costo il terreno. Iniziava poi con una serie di intimidazioni nei confronti dell'ex-proprietario, il quale per paura gli concedeva il 25-30% della rendita.

Galati decise di licenziare il guardiano, che per vendetta uccise il suo sostituto, ma il chirurgo non cedette alle intimidazioni anche quando gli arrivarono lettere minatorie contro la sua famiglia. La polizia non era troppo zelante e sembrava non voler catturare Carollo e i suoi scagnozzi. La mafia all'epoca agiva sotto la copertura di un’organizzazione religiosa comandata da Antonino Giammona (boss dell’Uditore, piccolo villaggio dove era situato il fondo Riella). Quest’uomo di umili origini fece fortuna durante le rivolte del ’48 e del ’60. La mafia dell’Uditore basava la sua economia sul racket della protezione dei limoneti. Poteva costringere i proprietari ad assumere i suoi uomini come guardiani e la sua rete di contatti con carrettieri, grossisti e portuali era in grado di minacciare la produzione di un’azienda agricola o di assicurarne l’arrivo sul mercato. Utilizzando la violenza si poteva fare cartello. Una volta assunto il controllo di un fondo, i mafiosi potevano rubare puntando ad un’economia parassitaria o ad acquistarlo ad un prezzo più basso del suo reale valore.

Alla fine Galati fuggì a Napoli incapace di ottenere giustizia a causa dell’omertà degli abitanti e della collusione di parte delle istituzioni[9]. La mafia acquisì i caratteri tipici dell’associazione segreta, mutuandoli dalla massoneria e dalla carboneria che andavano per la maggiore in quel periodo, oltre al fatto che conveniva. Usare una sinistra cerimonia di iniziazione e una tavola di leggi la cui prima regola era quella del castigo ai traditori, contribuiva a creare unità interna e senso di appartenenza.

Il rapporto Sangiorgi

L'omicidio Notarbartolo

Lo sbarco negli USA

Sotto il fascismo

Durante la Seconda Guerra Mondiale

Agli albori della Repubblica

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L'arresto di Provenzano

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Il processo sulla Trattativa Stato-Mafia

La Struttura

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Fatti Principali

Per saperne di più

Cinema

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Bibliografia

Note

  1. Giovanni Falcone, Cose di Cosa nostra, in collaborazione con M. Padovani, Milano 1991, p.93
  2. Citato da Leonardo Sciascia in La Storia della Mafia, pubblicato in “Quaderni Radicali” n. 30 e 31 – Anno XV Gennaio/Giugno 1991
  3. Si ricorda che Luciano Leggio è noto alle cronache come “Liggio”, a causa di un errore di trascrizione nel primo verbale di fermo negli anni ’50.
  4. Intervista di Enzo Biagi a Luciano Leggio, Linea diretta 20 marzo 1989, citato in MOIRAGHI Francesco, Cosa Nostra, pubblicato in Strutture: Cosa Nostra e ‘ndrangheta a confronto, WikiMafia – Libera Enciclopedia sulle Mafie, pag.5
  5. Discorso al Teatro Massimo di Palermo del 28 giugno 1925
  6. Tribunale di Palermo. Sentenza di rinvio a giudizio contro L. Leggio + 115, 14 agosto 1965, in Commissione parlamentare Antimafia 1972, IV, t. XVI, pp. 208-9
  7. G. Falcone, Cose di Cosa nostra, in collaborazione con M. Padovani, Milano 1991, p.37
  8. Leopoldo Franchetti, La Sicilia nel 1876 (2 voll., con Sidney Sonnino), Barbera, Firenze, 1877, vol. I: Condizioni politiche e amministrative della Sicilia
  9. Per conoscere nel dettaglio l'intera vicenda Galati, si rimanda a Dickie, Cosa Nostra, pp.12-20