Mafie a Taranto

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La provincia di Taranto ha conosciuto un maggior radicamento e consolidamento del fenomeno mafioso a cavallo tra gli anni '70 e gli anni '80 del Novecento. In particolare, la presenza mafiosa nel capoluogo ionico ebbe il suo apice in quella che è passata alla storia come la Faida di Taranto.

mafie a taranto

Storia e attività

L’abbandono degli assetti tradizionali: un nuovo modo di fare malavita

Fino agli inizi del 1980, in virtù di un’economia prevalentemente di tipo rurale, la criminalità di Taranto era strutturata in maniera "tradizionale", non presentava quindi i caratteri di un'organizzazione mafiosa[1].

La realizzazione del IV Centro Siderurgico, inaugurato nel 1965, aveva contribuito al mutamento del tessuto socio-economico della città, con un abbandono massiccio delle campagne ed un conseguente inurbamento della città jonica[2], ma l'alta occupazione nello stabilimento aveva mantenuto la criminalità locale ai margini.

La svolta si ebbe tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli anni '80, quando la crisi del settore siderurgico, che seguì la più generale crisi del capitalismo di tipo fordista occidentale di quegli anni, provocò una crisi sociale acuta, con alta disoccupazione e nuove povertà. In questo clima di crisi economica, il Clan Modeo si fece strada nel panorama criminale tarantino, deciso ad affermare la propria egemonia in città e modificando irreversibilmente gli assetti tradizionali della malavita tarantina[3].

Il fenomeno mafioso nei primi anni '90

Nei primi anni '90 a Taranto operavano i Modeo, i De Vitis, gli Scarci e i Di Bari. In provincia, invece, si affermò a Massafra il sodalizio guidato da Cataldo Caporosso e a Manduria quello facente capo a Massimo Cinieri[4].

Il Clan Modeo era il più importante in città e contava circa 140 affiliati. Esercitavano la loro autorità nel quartiere di Paolo VI, nel quartiere dei Tamburi, in città vecchia e nel comune di Pulsano[5].

Il gruppo De Vitis - D’Oronzo era costituito da circa 90 affiliati e tentava di minare il monopolio dei Modeo nel traffico degli stupefacenti e delle estorsioni[6].

Il Clan Di Bari, fondato dai tre fratelli Di Bari (Francesco, Antonello e Michele), era composto da circa 50 affiliati e operava nel rione "Tre Carrare", occupandosi di estorsioni e spaccio di droga[7].

Il Gruppo degli Scarci, composto da 70 adepti, esercitava la propria influenza nei comuni di Ginosa e Castellaneta. Le principali attività del clan erano le estorsioni, le rapine e l'usura. Gli Scarci riuscirono ad espandere le proprie attività fino a Policoro e a Montescaglioso, in provincia di Matera[8].

I Caporosso erano composti da 20 affiliati ed operavano a Massafra, luogo di nascita del capo-clan, Cataldo Caporosso. Nel sodalizio vi erano infiltrazioni di matrice ‘ndranghetista, giacché tra gli affiliati si annoverava Salvatore Figliuzzi, originario di Rosarno, che intratteneva i legami con gli esponenti della 'ndrangheta di quel territorio[9].

Il Clan Modeo

Fondato da Antonio, conosciuto come "Il Messicano", il Clan riuscì a rendere autonoma la provincia dall'influenza della Sacra Corona Unita, a patto però che non si espandesse nelle province sotto il controllo della nuova organizzazione mafiosa fondata da Giuseppe Rogoli[10]. I Modeo finirono per adottare struttura, terminologia e gradi delle altre organizzazioni mafiose, in particolare di Cosa Nostra e 'ndrangheta.[11].

I sodali iniziarono a fregiarsi delle qualifiche quali picciotto, camorrista, sgarrista, santista, vangelo e crimine. Il Clan adottò anche il c.d. "passaggio per novità", vale a dire il trasferimento di informazioni in carcere, con riferimento specifico alle nuove affiliazioni[12], nonché un proprio rituale per il giuramento di fedeltà all'organizzazione[13].

Il Clan si dotò quindi di una struttura verticistica-piramidale e in questo modo la provincia di Taranto vide un'unica grande organizzazione che controllava il territorio.

L’ascesa dei Modeo

La conquista dell'egemonia criminale venne conquistata dai Modeo con l'eliminazione di altri elementi di spicco della criminalità tarantina. Il primo ad essere ucciso fu il contrabbandiere Cosimo D'Acunto, il 6 gennaio 1982: si era vantato con Antonio Modeo di essere migliore di lui nel contrabbando e, per questo, il boss inviò il fratello Gianfranco e Paolo Dell'Aquila ad ucciderlo[14].

Tre anni dopo, il 7 luglio 1985, ad essere ucciso fu Matteo Marotta, che si frapponeva al controllo totale dei Modeo sulla protezione dei vivai dei mitili. A sparare questa volta fu l'altro fratello, Riccardo, in sella a una moto guidata dal fratello Gianfranco. I due vennero arrestati il 30 luglio successivo e condannati a 22 anni di reclusione, ma per circa un anno si diedero latitanti dopo aver ottenuto la misura del soggiorno obbligato[15].

Il 23 settembre 1988 fu la volta di Francesco Basile, detto Don Ciccio, anziano boss della malavita tarantina, garante della pace criminale in città. Dedito all'usura, aveva investito i proventi in un'attività di commercio di mobili antichi e in uno dei più noti ristoranti della città. Benché gli autori restino ignoti, il sospetto degli inquirenti ricadde sempre sui Modeo[16].

L'ultimo omicidio, il più eclatante, fu quello di Vito Masi, boss tarantino dedito al narcotraffico e all'usura, con potenti legami con la criminalità barese e la 'ndrangheta. Venne ucciso l'8 maggio 1989 da Mario Pulito per conto di Gianfranco e Riccardo Modeo[17] per aver violato il divieto di vendere droga a Taranto, attività monopolizzata dal Clan[18].

Questi tre omicidi sancirono la definitiva egemonia dei Modeo sul panorama criminale di Taranto e provincia.

La Faida di Taranto

Durante il periodo di detenzione di Gianfranco e Riccardo Modeo, il giro delle estorsioni venne affidato a Salvatore De Vitis e Orlando D’Oronzo, finché non venne loro revocato nel momento in cui iniziarono a contestare le condizioni imposte dai due fratelli carcerati[19].

A quel punto nel luglio 1989 i due, insieme ai loro sodali, si schierarono con Antonio Modeo contro i due fratelli, nello scontro che nacque per via della decisione di entrare o meno nello spaccio di eroina. Antonio, più imprenditoriale, sosteneva che lo spaccio di eroina avrebbe attirato i riflettori delle forze dell'ordine, mentre i due fratelli, ai quali nel mentre si era aggiunto anche il più giovane Claudio, sostenevano fosse un business criminale da esplorare.

La rivalità tra Antonio e gli altri tre fratelli nacque anche per i dissapori circa il fatto che lui e gli altri tre erano nati da madri diverse[20].

Alla fine, Antonio Il Messicano venne ucciso con tre colpi di pistola a Bisceglie il 16 agosto 1990 dal boss barese Salvatore Annacondia, entrato nel frattempo in affari con gli altri due fratelli, mentre si trovava in sella ad una Vespa guidata da Michele Di Chiano[21].

La Strage della Barberia

L'omicidio di Antonio non fermò tuttavia la guerra di mafia. In seguito all’arresto di Marino Pulito, avvenuto il 29 giugno 1991 il clan Modeo si indebolì molto[22]. Di conseguenza, sul territorio tarantino non vi era più un sodalizio che esercitasse la propria egemonia criminale in maniera indiscussa. In un tale contesto, fu facile che tra i clan di Taranto scoppiassero diversi conflitti per imporre la propria autorità.

A sopperire al vuoto di potere lasciato dai Modeo fu Antonio Martera, chiamato il sindaco della città vecchia per il fatto che lì gestiva il traffico della droga con Vincenzo Cesario. Il gruppo di fuoco dell’organizzazione era rappresentato da Cosimo Cianciaruso e Luigi Martera[23].

L’associazione era decisa a rubare definitivamente la scena della criminalità tarantina ai Modeo e, a tal scopo, organizzò diversi attentati indirizzati ai familiari del clan: il 29 settembre 1991 una bomba fece esplodere l’automobile della moglie di Claudio Modeo, Tina Murianni; il giorno seguente, ad essere preso di mira fu il bar del boss, fatto esplodere da un attentato dinamitardo[24].

Oltre a ciò, furono compiuti atti violenti anche contro Marilena Modeo e suo marito Giovanni Caforio: fu compromessa la possibilità di questi ultimi di continuare a gestire i loro piccoli affari criminali nella città vecchia[25].

L’episodio più grave avvenne nei confronti della moglie di Cosimo Caforio, schiaffeggiata con violenza da Luigi Martera. A quel punto Giovanni, per riaffermare la propria autorità crimiale, organizzò quella che è passata alla storia come la Strage della Barberia, aiutato da Francesco Di Bari e Leonardo Ventrella[26].

La sera del 1° ottobre 1991 il boss, insieme a Cosimo Bianchi e Gaetano Fanelli, irruppe in una barberia della città vecchia, in Via Garibaldi, esplodendo un fiume di colpi di pistola e mitra. A morire in quell’agguato furono Giuseppe Ierone, il titolare del salone, Cataldo Padula, 20 anni, Domenico Ferrara, 23 anni, e Francesco Abalsamo, anche lui 23enne. Tuttavia, gli obiettivi dei sicari avevano lasciato il locale qualche minuto prima e il bilancio della Strage furono solo vittime innocenti.

La risposta dello Stato e il processo “Ellesponto”

La reazione dello Stato scattò con il processo Ellesponto, che ricostruì, anche grazie a diversi pentiti del calibro di Annacondia, Gianfranco Amodeo e tanti altri, i retroscena di due anni di mafia. Emblematico del clima fu la reazione della famiglia di Vincenzo Cesario, alla notizia della sua collaborazione con la giustizia: Taranto vecchia fu tappezzata di manifesti funebri che recitavano: “Improvvisamente è venuto a mancare all’affetto dei suoi cari Vincenzo Cesario, ne danno il felice annuncio i fratelli Pasquale, Cosimo e Giuseppe con le rispettive mogli e il resto della famiglia. I funerali non avranno luogo perché la salma è stata buttata”[27].

Il maxiprocesso, cui ne seguirono diversi altri, permise di disarticolare i traffici mafiosi in provincia di Taranto, assicurando alla giustizia i principali esponenti dei clan.

Situazione attuale

Taranto città

A seguito delle condanne all'ergastolo dei boss storici nei processi degli anni '90, la criminalità organizzata tarantina si presenta scomposta e disorganica, caratterizzata da una marcata disomogeneità dovuta al proliferare di molteplici consorterie che si spartiscono l’intera provincia. Come avvalorato da diverse inchieste degli ultimi anni, i piccoli gruppi che pullulano nel territorio jonico, dediti alla commissione di eventi delittuosi come ferimenti o danneggiamenti, dispongono anche di una rilevante quantità di armi.

I clan esercitano un controllo sui quartieri o rioni della città, senza alcun legame organizzativo tra di loro. Questa è l'attuale configurazione, fotografata dalle più recenti Relazioni Semestrali della Direzione Investigativa Antimafia:

  • Clan Catapano, Clan Leone e Clan Cicala: quartieri di Talsano, Tramontone e San Vito;
  • Clan Cesario, Ciaccia, Modeo e Pascali: quartieri Paolo VI e Borgo;
  • Clan Diodato: Borgo;
  • Clan dei Sambito: Borgo e Tamburi;
  • Clan Scarci: quartiere Salinella;
  • Clan Taurino e Pizzolla: quartiere Città Vecchia;
  • De Vitis - D'Oronzo: Solito-Tre Carrare;

I Modeo, nonostante i duri colpi inferti negli anni '90, restano ancora attivi nel traffico degli stupefacenti, come emerso nell'indagine Crypto, scattata il 15 settembre 2021.

La città di Taranto con il suo porto continua a risentire delle endemiche problematiche legate al transito di maestranze anche straniere a volte dedite a traffici delittuosi quali contrabbando di t.l.e., contraffazione e prostituzione. Sebbene non si registrino nel semestre episodi riferibili al caporalato non sono mancati fenomeni di sfruttamento di manodopera di soggetti extracomunitari.

Provincia

In provincia emerge la presenza di alcuni elementi criminali che dimostrano in modo particolare aspirazioni imprenditoriali finalizzate all’infiltrazione nel tessuto economico e sociale.

L’area geografica dei comuni del versante nord-occidentale che insistono sulla Terra delle Gravine vede la supremazia criminale dei sodalizi Locorotondo e Caporosso-Putignano, mentre nel versante sud-orientale dominano i Cagnazzo, che hanno la propria roccaforte a Lizzano.

Note

  1. Citato in Nicolangelo Ghizzardi e Arturo Guastella (2010). “Taranto, tra pistole e ciminiere. Storia di una saga criminale”, Lecce, I Libri di Icaro, p.35.
  2. Ivi, p.36
  3. Ivi, pp. 64-65
  4. Nisio Palmieri, op.cit., p. 166.
  5. Ibidem
  6. Ibidem
  7. Ibidem
  8. Ivi, p. 168.
  9. Ibidem.
  10. Citato in Nisio Palmieri (2013). “Criminali di Puglia. 1973-1994: dalla criminalità negata a quella organizzata”, Molfetta (BA), La Meridiana, p. 164
  11. Citato in Nicolangelo Ghizzardi e Arturo Guastella, op.cit., p.78.
  12. Ibidem
  13. Ivi, p. 79
  14. Citato in Nicolangelo Ghizzardi e Arturo Guastella, op.cit., p.55 e p.57.
  15. Ivi, pp.68-69
  16. Ivi, p.58
  17. Ivi, p.71.
  18. Ivi, p.73.
  19. Nisio Palmieri, op.cit., p.164
  20. Citato in “Trent’anni fa la Strage della barberia, l’atto finale della faida di Taranto: storia del clan Modeo, i 160 omicidi in un biennio e i contatti con Gelli”, Il Fatto Quotidiano, 1° ottobre 2021.
  21. Citato in Nicolangelo Ghizzardi e Arturo Guastella, op.cit., pp. 196-197
  22. Nicolangelo Ghizzardi e Arturo Guastella, op.cit., p. 229.
  23. Ibidem.
  24. Ibidem.
  25. Ivi, pp. 229-230
  26. Ibidem
  27. Enrico Fierro, "Un manifesto: «il pentito è morto». Ma non e vero", l'Unità, 5 febbraio 1995.

Bibliografia

  • Direzione Investigativa Antimafia, Relazione 1° Semestre 2016, Relazioni 1° e 2° Semestre 2020, Relazioni 1° e 2° Semestre 2021, Relazioni 1° e 2° Semestre 2022, Relazioni 1° e 2° Semestre 2023, Roma.
  • Ghizzardi, Nicolangelo & Guastella, Arturo (2010). “Taranto, tra pistole e ciminiere. Storia di una saga criminale”, Lecce, I Libri di Icaro.
  • Palmieri, Nisio (2013). “Criminali di Puglia. 1973-1994: dalla criminalità negata a quella organizzata”, Molfetta (BA), La Meridiana.