Bruno Contrada
Bruno Contrada (Napoli, 2 settembre 1931) è un ex funzionario, agente segreto ed ex poliziotto italiano; è stato dirigente generale della Polizia di Stato, numero tre del Sisde, capo della Mobile di Palermo, e capo della sezione siciliana della Criminalpol. Condannato a 10 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa in via definitiva nel 2007, il 7 luglio 2017 la sentenza è stata dichiarata dalla stessa Corte di Cassazione "ineseguibile e improduttiva di effetti penali", dando seguito alla sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo che aveva condannato l'Italia in quanto prima del 1994, quando la suprema Corte si espresse a sezioni riunite, il reato "era poco chiaro".
A tal proposito, Gian Carlo Caselli, ex-procuratore capo di Palermo che contestò il reato a Contrada, in un'intervista a "la Stampa"[1] ha ribadito: "La Cedu e la Cassazione non prendono in esame i fatti specifici che portano alla responsabilità di Contrada. Quindi non si tratta di un’assoluzione per quanto riguarda i fatti. Che in ogni caso sono e restano gravissimi."
Sulla stessa scia il commento di Marco Travaglio[2], direttore de "Il Fatto Quotidiano": "Ora, con buona pace della Corte di Strasburgo che la mafia non l'ha mai vista neppure in cartolina, e della nostra Cassazione che invece dovrebbe saperne qualcosa, il reato di concorso esterno non è un'invenzione: è sempre esistito, come il concorso in omicidio, in rapina, in truffa, in corruzione ecc. Nel 1875, quando la Sicilia aveva una Cassazione tutta sua e la mafia si chiamava brigantaggio, già venivano condannati i suoi concorrenti esterni agrigentini per “complicità in associazione di malfattori”. Nel 1982 la legge Rognoni-La Torre creò finalmente il reato di associazione mafiosa (art. 416-bis del Codice penale) e subito dopo, nel 1987, il pool di Falcone e Borsellino contestò il concorso esterno in associazione mafiosa ai colletti bianchi di Cosa Nostra nella sentenza-ordinanza del maxiprocesso-ter."
Biografia
Dichiarato vincitore del concorso per esami per vice-Commissario di polizia in prova, indetto il 1° Giugno 1957, Bruno Contrada, dopo avere prestato servizio per il periodo di prova presso la Questura di Latina, proveniente dall'Istituto Superiore della Polizia di Stato di Roma, il 24 dicembre 1959 venne nominato Vice-Commissario nel ruolo della carriera direttiva dell'Amministrazione della Polizia di Stato: per il periodo compreso tra il 25 luglio 1959 e il 1° agosto 1961 venne assegnato, quale funzionario addetto, alla Questura di Latina, prima all'Ufficio Politico, poi alla III Divisione e infine alla Squadra Mobile; dal 1° agosto 1961 al 4 novembre 1962 diresse il Commissariato di Sezze Romano, in provincia di Latina, con la qualifica di Commissario aggiunto, conseguita il 23 giugno 1961.
Il 4 novembre venne inviato in missione a Palermo, trasferimento reso definitivo dal 5 febbraio 1963, dove venne assegnato alla Squadra Mobile con diversi incarichi, prima come dirigente della Volante, poi delle sezioni Antimafia e Investigativa, infine, dal 1° settembre 1973, come Dirigente; in questa veste fu lui a raccogliere la testimonianza del primo pentito di Cosa Nostra Leonardo Vitale, che 10 anni prima di Tommaso Buscetta aveva consegnato agli inquirenti una mappa precisa delle famiglie mafiose palermitane e della struttura interna dell'organizzazione.
Si occupò anche della scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, rapito e ucciso dalla mafia nel 1970: per Contrada e il suo vice Boris Giuliano la scomparsa era legata alle indagini sull'attentato in cui morì Enrico Mattei, presidente dell'ENI, ufficialmente morto in un incidente aereo, mentre per il generale Carlo Alberto dalla Chiesa la pista più probabile erano le sue indagini sul traffico di droga delle cosche palermitane; al caso lavorava anche il colonnello dei Carabinieri Giuseppe Russo, poi ucciso nel 1976 dai Corleonesi. Nel 1976 Contrada lasciò a Giuliano la guida della Squadra Mobile per passare alla Criminalpol e sei anni dopo andò al SISDE come coordinatore dei centri siciliano e sardo; nel settembre 1982 venne nominato dal prefetto Emanuele De Francesco capo di Gabinetto dell'Alto Commissario per la lotta alla mafia, dove restò fino al 1985, per poi andare l'anno successivo al Reparto Operativo della Direzione del Sisde, riorganizzandone le funzioni e assegnandogli una specifica competenza antimafia, cosa che creò un conflitto di attribuzione con la preesistente Direzione Investigativa Antimafia.
Dal 31 maggio 1987 assunse la direzione del Coordinamento dei Gruppi di Ricerca latitanti del SISDE, carica da cui fu temporaneamente sospeso dall'8 agosto 1989 per essere assegnato al Servizio Ispettivo, salvo poi poi tornarvi il 6 marzo 1990.
Il 26 marzo 1991 Contrada venne nominato Dirigente Generale della Polizia di Stato, sempre in posizione distaccata presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Il 1° luglio 1992 il pentito Gaspare Mutolo fece per la prima volta il suo nome a Paolo Borsellino, durante il primo interrogatorio dopo la sua decisione di collaborare con la giustizia. Circostanza confermata dallo stesso Mutolo nell'udienza del 21 febbraio 1996 per il processo sulla Strage di Via d'Amelio e ribadita anche recentemente in quello sulla Trattativa Stato-Mafia. Durante quell'interrogatorio Borsellino ricevette una telefonata in cui il capo della Polizia Vincenzo Parisi lo invitava al ministero degli Interni per incontrare il neo-ministro Nicola Mancino, circostanza confermata dall'agenda del magistrato, che segnò "1° luglio ore 19:30: Mancino"[3]; al ministero incontrò anche Bruno Contrada, che rivelò al magistrato di essere a conoscenza dell'interrogatorio segreto con il pentito: "so che è con Mutolo, me lo saluti". Sempre Mutolo riferì che Borsellino, di ritorno dopo due ore, era "tutto arrabbiato, agitato, preoccupato, ma che addirittura fumava così distrattamente che aveva due sigarette in mano."[4] Anni dopo la moglie di Borsellino, Agnese, in una appello lanciato dalla trasmissione di Michele Santoro "Servizio Pubblico", chiese al ministro degli Interni: "Perché Paolo rientrato la sera di quello stesso giorno da Roma, mi disse che aveva respirato aria di morte?"[5]
Il 24 dicembre 1992 Contrada venne arrestato per concorso esterno in associazione mafiosa, sulla base delle rivelazioni di diversi collaboratori di giustizia.
Il processo Contrada
- Per approfondire, vedi Processo Contrada
Il processo si aprì l'11 febbraio 1994 di fronte alla V sezione del Tribunale di Palermo, presieduta dal giudice Francesco Ingargiola con giudici a latere Salvatore Barresi (estensore della sentenza di 1° grado) e Donatella Puleo.
Il 14 febbraio il GIP emise un decreto di giudizio immediato su richiesta dello stesso Contrada, chiamato a rispondere del reato di concorso esterno in associazione mafiosa in base agli artt.110-416, con le aggravanti di cui ai commi IV e V, e artt.110-416bis, con le aggravanti di cui ai commi IV, V e VI[6], per avere, dapprima come funzionario di polizia e successivamente come Dirigente dell'Alto Commissariato per il coordinamento della lotta alla mafia e del SISDE, contribuito sistematicamente alle attività ed agli scopi criminali di "Cosa Nostra", in particolare fornendo ad esponenti della "Commissione Provinciale" di Palermo, notizie riservate riguardanti indagini e operazioni di Polizia da svolgere nei confronti dei medesimi e di altri appartenenti all'associazione.
Antefatti: le dichiarazioni dei Pentiti
Gaspare Mutolo
Già condannato nel Maxiprocesso di Palermo a tredici anni e dieci mesi di reclusione e 60 milioni di lire di multa, l'uomo di fiducia di Rosario Riccobono, capo-mandamento della famiglia di Partanna-Mondello e componente della Commissione, Gaspare Mutolo riferì che intorno al 1975 Cosa Nostra, rappresentata al suo massimo vertice dal triumvirato Bontate-Riina-Badalamenti era fermamente decisa ad evitare che le Forze dell'Ordine inoltrassero all'autorità giudiziaria denunce aventi ad oggetto esclusivamente il reato di associazione per delinquere, poiché in passato da denunce di quel tipo erano derivati gravissimi danni agli uomini d'onore, esposti a continui arresti per qualunque fatto delittuoso di una certa gravità che si potesse verificare nel territorio della loro “egemonia” mafiosa[7].
Per raggiungere l'obiettivo emersero due strategie: Bontate e Badalamenti erano più propensi ad adottare una linea più “morbida” che consisteva nel tentare prima l’assoggettamento alle esigenze di Cosa Nostra degli uomini dello Stato più “pericolosi” per la mafia e, solo in caso di soggetti irriducibili, procedere alla loro eliminazione fisica; Riina, invece, si era dimostrato favorevole ad adottare una soluzione drastica di eliminazione diretta ed esemplare.
Mutolo e Salvatore Micalizzi furono incaricati di controllare gli spostamenti e le abitudini di questi funzionari di polizia, per tenersi pronti ad eventuali azioni "drastiche" nei loro confronti. A quell'epoca Contrada era considerato un possibile obiettivo dell'azione cruenta della mafia. Arrestato nel maggio 1976, una volta uscito nel 1981 Mutolo venne a sapere direttamente da Rosario Riccobono che Contrada era ormai a disposizione dell'organizzazione[8].
Per spiegare a Mutolo quanto Contrada fosse diventato “amico”, Riccobono gli aveva raccontato che per ben tre volte, nel corso della sua latitanza, mentre risiedeva in appartamenti siti nella zona tra la via Don Orione, la via Guido Jung e la via Ammiraglio Rizzo a Palermo, il dirigente lo aveva avvisato in tempo, tramite l'avvocato Fileccia, in ordine ad imminenti operazioni di Polizia consentendogli di sottrarsi alla cattura; sempre nello studio dell'avvocato si incontrarono anche per confrontarsi sui sospetti di Riccobono circa un confidente tra le sue fila, ma Contrada si rifiutò di fargli il nome.
In particolare, Mutolo riferì: "il Riccobono mi dice, tramite il conte Cassina ed un'altra persona, che Stefano Bontate fu il primo ad avere questi contatti, diciamo amichevoli con il dott. Contrada, che dopo, insomma, si sono rafforzati anche con il Riccobono, e che, a dire del Riccobono, anche con altre persone come Inzerillo, come Totò Scaglione, come Michele Greco, insomma, ed i favori li aveva fatti anche a Riina e ad altre persone”... ” perchè quando ci sono queste persone, diciamo importanti, che sono a disposizione di un uomo d’onore a livello di Stefano Bontate o di Saro Riccobono o di Michele Greco, non è che il favore lo possono fare soltanto a quelle persone, cioè tra loro pezzi grossi..."[9]
Francesco Marino Mannoia
Tra le dichiarazioni rese da Mannoia, vi sono quelle relative all'ottenimento della patente per Stefano Bontate grazie all'intervento di Contrada agli inizi degli anni '80[10].
Salvatore Cancemi
Uomo di fiducia di Giuseppe Calò e collaboratore di giustizia dal 1993, Cancemi dichiarò di aver saputo che Contrada fosse "persona molto vicina" a Bontate e a Riccobono nel 1976, prima dal suo capo-decina Giovanni Lipari, poi direttamente da Calò ("era come dire pane e pasta in Cosa Nostra che il Contrada era nelle mani di Cosa Nostra"[11]).
In particolare, confermando le dichiarazioni di Mannoia, disse di aver saputo che Contrada si era interessato di fare avere la patente e il porto d'armi a Bontate e aveva passato informazioni a Riccobono in ordine a mandati di cattura e altre notizie di interesse per l'organizzazione.
Tommaso Buscetta
Il boss dei due mondi riferì che, all'epoca della sua latitanza dopo essere fuggito dal regime di semi-libertà tra il 1980 e il 1981, aveva manifestato a Riccobono il suo proposito di tornare in Brasile con la famiglia, ma questi aveva tentato di dissuaderlo e di trasferirsi nel territorio di Partanna-Mondello perché "io ho il dott. Contrada, che mi avviserà se ci sono perquisizioni o ricerche di latitanti in questa zona, quindi qua potrai stare sicuro.[12]"
Buscetta disse anche che Riccobono era criticato nell'organizzazione non tanto perché avesse un amico poliziotto, ma perché "perdeva molto tempo in compagnia del dott. Contrada, non era il solito avvicinamento, la notizia e basta" tanto che alcuni gli avevano attribuito l'appellativo di "sbirro".
Buscetta, nel corso dell'interrogatorio, ricordò come moltissimi "uomini d'onore" all'epoca latitanti (tra questi esponenti di primo piano come Riina, Provenzano, Inzerillo e Riccobono) frequentavano abitualmente locali pubblici e i giovani, in particolare, andavano a ballare nei locali notturni di Palermo, in particolare all'Hotel "Zagarella" dei cugini Salvo; lui stesso aveva trascorso una latitanza "disinvolta" nel corso della quale era stato portato in giro per la città con la massima tranquillità. Ricordò, a tal proposito, un particolare che lo aveva molto colpito: in quel periodo, si svolgevano frequenti riunioni di "uomini d'onore" in una casa di proprietà di Salvatore Inzerillo, all'epoca latitante, sita nei pressi dell'aeroporto di Boccadifalco; ogni mattina si alzava dal vicino aeroporto militare un elicottero delle Forze dell'Ordine che, a suo avviso, non poteva non vedere le "centinaia" di macchine di gente che veniva da tutta la Sicilia, posteggiate nei pressi della casa di Inzerillo; quando Buscetta espresse le proprie preoccupazioni al boss, questi lo aveva rassicurato dicendogli che “non aveva motivo di preoccuparsi[13]”.
Buscetta dichiarò poi che già nel 1984, all'inizio della propria collaborazione, aveva riferito a Giovanni Falcone di non fidarsi della polizia, in quanto piena di corrotti, a seguito della richiesta del giudice affinché all'interrogatorio partecipasse anche Ninni Cassarà, contrariamente a quanto successo fino a quel momento. Di fronte alla richiesta di un nome, riportò quanto sapeva su Contrada, ma si rifiutò di mettere il tutto a verbale, temendo di non essere creduto anche in merito alle sue dichiarazioni sulla struttura interna di Cosa Nostra.
Rosario Spatola
Rosario Spatola riferì di avere saputo da Rosario Caro con cui si trovava la prima volta che aveva avuto modo di incontrare Contrada, che quest'ultimo era un massone "a disposizione dell'organizzazione Cosa Nostra[14]". L'incontro avvenne nella primavera del 1980 all'interno di un ristorante "Delfino" di Sferracavallo, gestito da tale Antonio, cognato di "don Ciccio Carollo", uomo d'onore e massone palermitano esercente l'attività di commercio all'ingrosso di bibite ed acque minerali[15]: Caro fece un cenno di saluto verso un tavolo al quale erano seduti Contrada e Riccobono. Sempre in quell'occasione Caro gli aveva riferito che Contrada era un "buon amico" a cui potersi rivolgere in caso di bisogno o di problemi con la Polizia; suo fratello Federico aveva ottenuto grazie a lui il porto di pistola e lui stesso era in attesa di riceverlo.
Il fatto venne confermato da altri massoni, tra cui l'avvocato Messina, che gli aveva fatto sapere che Contrada da dirigente dell'Alto Commissario aveva fatto trapelare in anticipo notizie su perquisizioni nel trapanese. Lo stesso Spatola, in alcune occasioni in cui si trovava a Campobello, era stato avvisato tempestivamente degli imminenti controlli di Polizia dal suo capo-famiglia Antonio Messina e così aveva potuto occultare in tempo le armi che deteneva nella propria abitazione.
Antefatti: ulteriori riscontri testimoniali e documentali
La perquisizione domiciliare a casa Inzerillo e il caso Gentile
Tra i riscontri testimoniali e documentali che confermavano le parole dei pentiti, vi fu il c.d. "caso Gentile", connesso alla perquisizione a casa di Salvatore Inzerillo il 12 aprile 1980.
A seguito di quella perquisizione, il commissario capo Renato Gentile scrisse una relazione di servizio, inviata al dirigente della squadra mobile di Palermo dell'epoca, Giuseppe Impallomeni, in cui faceva presente che:
"la sera di sabato 12 c.m., nell'androne di questa Squadra Mobile, dopo avere lasciato la S.V., venivo avvicinato dal dott. Contrada che mi chiedeva se fossi andato a fare una perquisizione a casa di Inzerillo Salvatore e se in quell'occasione agenti armati di mitra fossero entrati nelle stanze facendo impaurire i bambini: a questo punto il dott. Contrada aggiungeva che aveva avuto lamentele dai capi-mafia per il modo in cui si era agito. Al che lo scrivente rispose che la perquisizione avvenne in modo normalissimo, senza violenza e senza armi in pugno, anzi, gli uomini nella stanza dove dormivano le figlie del latitante, si comportarono in modo tale da non farle alzare dal letto, aggiunsi, inoltre, che tutta l’operazione era diretta alla presenza della S.V. Il dott. Contrada aggiungeva che determinati personaggi mafiosi hanno allacciamenti con l'America per cui noi, organi di Polizia non siamo che polvere di fronte a questa grande organizzazione mafiosa: hai visto che fine ha fatto Giuliano?. Nel pomeriggio di oggi la guardia Naso, della sez. catturandi, mi informava che nel pomeriggio di sabato anche lui fu chiamato dal dott. Contrada il quale gli chiese circa l'operazione compiuta presso l'abitazione dell'Inzerillo[16]”
Durante l'udienza del 20 maggio 1994 Renato Gentile confermò integralmente il contenuto della relazione, riferendo che le rimostranze di Contrada lo avevano turbato a tal punto che aveva ritenuto doveroso informare immediatamente il proprio Dirigente. La circostanza fu confermata anche da Impallomeni, che inoltrò la relazione al questore dell'epoca, Vincenzo Immordino, lamentandosi del comportamento di Contrada.
L'operazione di polizia del 5 maggio 1980: i rapporti tra Contrada e il Questore Immordino
L’operazione di Polizia nota come “blitz del 5/5/1980” avvenne a seguito della scia di omicidi eccellenti inseriti nell'ambito della Seconda Guerra di Mafia, in particolare dopo l'omicidio del capo della Squadra Mobile Boris Giuliano (21 luglio 1979), del giudice Cesare Terranova (25 settembre) e del presidente della Regione Piersanti Mattarella (6 gennaio 1980).
Nel dicembre 1979 ai vertici della Questura venne posto Vincenzo Immordino, sia per la sua esperienza sia per le sue doti pragmatiche. Per prima cosa, nominò un nuovo capo della Squadra Mobile (Impallomeni) e poi chiese un rapporto antimafia sulla base del materiale investigativo già esistente presso gli archivi della mobile e della Criminalpol a Contrada e Vittorio Vasquez, che allora lo affiancava alla Criminalpol. Nonostante i numerosi solleciti Contrada tardava a portare a compimento l'incarico conferitogli limitandosi a consegnare al Questore soltanto una “mappa” delle cosche mafiose di Palermo conosciute all'epoca. La situazione andò avanti fino all'aprile 1980, quando il questore decise di affidare il compito mai svolto da Contrada ad un gruppo di lavoro coordinato dal vice-questore Francesco Borgese.
Quest'ultimo riferì durante il processo che intorno al 27 aprile il questore gli fece sapere che Contrada aveva presentato una bozza di rapporto, totalmente già superata dal lavoro del gruppo. Sulla base di quel rapporto venne basato il blitz del 5 maggio 1980, alla cui riunione preparatorio il questore aveva esplicitamente fatto divieto di parlare delle operazioni in corso a Contrada e a Vasquez[17]. L'uccisione del capitano Emanuele Basile accelerò i tempi dell'operazione, che portò all'iscrizione nel registro degli indagati di 55 persone per associazione per delinquere aggravata, di cui 28 arrestati durante l'operazione. Il successivo procedimento venne affidato a Giovanni Falcone, che lì formalizzò il c.d. "metodo Falcone", cioè seguire la pista dei soldi durante le indagini.
L'allontanamento dall'Italia di John Gambino
La fase dibattimentale
All'udienza del 12 aprile 1994, compiuto l'accertamento della regolare costituzione delle parti, il Tribunale procedette all'esame delle questioni preliminari concernenti il contenuto del fascicolo per il dibattimento.
In particolare il Pubblico Ministero Antonio Ingroia chiese e ottenne l'inserimento di alcuni atti c.d. "irripetibili", nonché di alcuni atti ottenuti tramite rogatoria internazionale, formulava richiesta, cui non si opponeva la difesa, di inserimento nel fascicolo del dibattimento di alcuni atti irripetibili nonché di alcuni atti assunti a seguito di commissione rogatoria internazionale, per mera omissione non inseriti nel fascicolo dal GIP.
Risolte le questioni preliminari, il Presidente dichiarò aperto il dibattimento e il PM procedette all'esposizione introduttiva dei fatti, affermando che il processo prendeva le mosse dalle dichiarazioni rese da alcuni collaboratori di giustizia, in particolare Tommaso Buscetta, Gaspare Mutolo, Giuseppe Marchese, Rosario Spatola, Francesco Marino Mannoia, Salvatore Cancemi e Pietro Scavuzzo, i quali accusavano Contrada di avere mantenuto, fin dal periodo in cui operava presso gli uffici investigativi della Questura di Palermo, stabili rapporti con esponenti di spicco di Cosa Nostra e di avere posto in essere una continuativa condotta di agevolazione nei loro confronti, realizzata avvalendosi delle notizie a lui note grazie agli incarichi ricoperti; il PM sostenne anche che le dichiarazioni dei pentiti avevano trovato conferma di veridicità in una complessa serie di riscontri di natura obiettiva acquisiti all'esito delle indagini e che il quadro probatorio si era arricchito anche di numerose altre acquisizioni di natura documentale e testimoniale confermative delle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia.
Nel corso della fase dibattimentale, protrattasi per 165 udienze, il Tribunale ascoltò come testimoni i pentiti sopra citati, oltre a 50 testimoni dell'accusa e 144 della difesa, oltre ad altri 58 richiesti a vario titolo da entrambe le parti[18].
Nell'udienza del 13 giugno 1995 Contrada venne colto da un malore e il Tribunale ne ordinò il ricovero presso l'ospedale Civico di Palermo, disponendo l'acquisizione delle relazioni mediche sulle sue condizioni di salute. All'udienza del 28 luglio la difesa formulò l'istanza di revoca della misura cautelare in carcere, sia per insussistenza delle esigenze cautelari sia per le condizioni di salute di Contrada, ottenendola tre giorni dopo.
All'udienza del 23 novembre il PM Antonio Ingroia iniziò a illustrare le proprie conclusioni, concludendo dopo 21 udienze il 19 gennaio 1996, chiedendo una pena di 12 anni di reclusione[19].
La difesa iniziò a illustrare le proprie conclusioni all'udienza del 7 febbraio, concludendo dopo 22 udienze il 29 marzo, con la richiesta di assoluzione dell'imputato da tutte le imputazioni "perché il fatto non sussiste".
Conclusione
Il 5 aprile Contrada prese la parole per un ultimo intervento difensivo, dopo il quale il Presidente dichiarò chiuso il dibattimento.
Ulteriori gradi di giudizio
Note
- ↑ Gian Carlo Caselli sul caso Contrada: “La Suprema Corte non ha capito, quel reato esiste da sempre”, la Stampa, 8 luglio 2017
- ↑ Marco Travaglio, L'età della Pietra, Il Fatto Quotidiano, 9 luglio 2017
- ↑ Citato in Trattativa, Mutolo: “Borsellino sapeva che qualcuno voleva accordo con boss”, il Fatto Quotidiano, 16 gennaio 2014
- ↑ Citato dall'udienza del 21 febbraio 1994
- ↑ Servizio Pubblico, Puntata 6 dicembre 2012
- ↑ Francesco Ingargiola, Sentenza n.338/1996, Tribunale di Palermo - V Sezione Penale, 5 aprile 1996, p.2
- ↑ Ivi, p.134
- ↑ Ivi, p.137
- ↑ Citato dalla trascrizione udienza del 7 giugno 1994
- ↑ Ivi, p.301
- ↑ Ivi, p.338
- ↑ Ivi, p.385
- ↑ Ivi, p.390
- ↑ Ivi. p.443
- ↑ Ibidem
- ↑ Ivi, p. 562
- ↑ Ivi, p.600
- ↑ Ivi, pp. 8-22
- ↑ Ivi, p.23
Bibliografia
- Francesco Ingargiola, Sentenza n.338/1996, Tribunale di Palermo - V Sezione Penale, 5 aprile 1996