Processo Borsellino primo: differenze tra le versioni

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Con '''Processo Borsellino primo''' si intende il primo processo celebrato per accertare le responsabilità penali della [[Strage di Via Mariano d’Amelio]], in cui persero la vita il giudice [[Paolo Borsellino]] e gli uomini della scorta. Si basò sulle dichiarazioni del collaboratore di giustizia [[Vincenzo Scarantino]], che poi si scoprì essere false.
== Antefatti: le indagini ==
=== Il Blocco Motore ===
Il mattino del [[20 luglio]] [[1992]] la Polizia Scientifica, sotto le direttive del colonnello Vassale, iniziò il setacciamento della zona e il recupero del materiale ritenuto interessante. Da subito risultò che, per le caratteristiche del cratere formatosi, l'esplosivo non fosse a contatto col manto stradale, ma rialzato da terra.
Inoltre, fu rinvenuta dall'ispettore Paolo Egidi la carcassa di un motore, da subito ritenuta utile perché non ricollegabile ad alcuna auto presente sul luogo. Successivamente  all'intervento di un tecnico Fiat fu individuata come un motore bicilindrico montato sulla Fiat 126 presente sul luogo della strage. Si pensò dunque al vano portabagagli come posizione per l’esplosivo perché compatibile con il peso della carica, stimato in 90 kg <ref>Renato Di Natale (Presidente), Sent. Corte d’Assise del Tribunale di Caltanissetta, 27 gennaio 1996, pp.50-56</ref>
=== Le schede elettroniche ===
Sempre la mattina del 20 luglio furono rinvenute due schede elettroniche non riconducibili ad altri dispositivi presenti sul luogo. Su entrambe le schede era presente il logo “'''ST'''”, poi ricondotto alla ditta Telecom System. L'ingegnere della Telcoma, durante l’interrogatorio, le individuò come “componenti di un apparato altamente professionale del costo di due milioni di lire e utilizzato con attivazione a distanza". Affermò inoltre che il telecomando con l’antenna originale aveva una capacità di ricezione ottimale nel raggio di 300-500 metri<ref>ivi p. 71-72</ref>, portando all'individuazione di due edifici da cui sarebbe partito il segnale: l'uno alla fine di via D’Amelio, a circa 200 metri e disabitato, l'altro vicino alla via Autonomia Siciliana, sempre disabitato e distante 250 metri<ref>ivi p.74-75</ref>. I consulenti, infine, provarono la vicinanza delle schede al punto di scoppio rilevando dal loro danneggiamento tre aspetti: l'asportazione di molti componenti elettronici, segni di schiacciamento e la scheda di codifica parzialmente carbonizzata<ref>ivi p.73-74</ref>.
=== Deposizioni abitanti via D'Amelio ===
I consulenti individuarono, tra i testimoni sul luogo più attendibili, Antonio Genovese e Riccardo Rabita. Il primo riferì che il 19 luglio parcheggiò in via D’Amelio alle 15:30 e come suo solito osservò le auto posteggiate vicino, notando tra queste una Fiat 126 rossa sul punto preciso del cratere formatosi dopo l’attentato<ref>ivi p.75</ref>. Ulteriore conferma della presenza dell'auto fu data dal secondo testimone, Riccardo Rabita, che dichiarò di aver visto al mattino una Fiat 126 amaranto parcheggiata<ref>Ibidem</ref>.
=== La consulenza dei tecnici FBI ===
Il [[21 luglio]], sotto richiesta della magistratura, giunsero sul luogo dell’attentato tre tecnici dell'FBI, John Barret, Joseph Genovese e Robert Heckman. Nell'udienza del [[17 maggio]] [[1995]] dichiararono di aver preso parte alle indagini al fine di identificare la posizione precisa della 126 con l'esplosivo. Condussero le indagini con l’utilizzo di spettometro e cromatografia a gas riscontrando sulla maggior parte dei reperti la presenza di RDX, miscela esplosiva composta da RDX (T4) e PETN (pentrite) con il nome di SEMTEX-H<ref>ivi p.59-60</ref>. Infine esclusero che l'esplosivo potesse trovarsi a contatto col manto stradale<ref>ivi p.61</ref>.
=== La targa rubata e l'arresto di Scarantino ===
Sul luogo dell'esplosione venne rinvenuta anche la targa di un'altra Fiat 126 intestata ad Anna Maria Sferrazza, il cui furto era stato denunciato la mattina del 20 luglio da Giuseppe Orofino, titolare della carrozzeria dove l'auto della signora era stata lasciata in riparazione. Il particolare che colpì gli inquirenti era che l'auto non era stata rubata, ma lo erano stati i documenti e la targa. Gli investigatori decisero quindi di intercettare l'utenza telefonica di Simone Funari, marito di Pietrina Valenti, la signora che aveva denunciato il furto della Fiat 126 che invece si sospettava contenesse l'esplosivo.
Dall'ascolto delle telefonate gli investigatori scoprono un episodio di violenza carnale commesso su Cinzia Angiuli da parte di Luciano Valenti, fratello di Pietrina, nonché da Roberto Valenti e da Salvatore Candura: quest'ultimo, torchiato dagli inquirenti, confessò di essere l'autore del furto della Fiat 126, su commissione di Vincenzo Scarantino, che insieme ai fratelli gestiva diversi traffici illeciti nella zona della Guadagna ed era cognato di Salvatore Profeta, membro della cosca di [[Pietro Aglieri]], già implicato nel [[Maxiprocesso di Palermo]].
Il [[26 settembre]] 1992 Vincenzo Scarantino venne arrestato per i reati di strage, furto aggravato e altro.
=== La testimonianza di Francesco Andriotta ===
Le indagini subirono una svolta con la collaborazione di Francesco Andriotta, che riferì che tra il giugno e l'agosto 1993, mentre era in carcere con Vincenzo Scarantino, questi gli rivelò, dopo la notizia dell'arresto del carrozziere Giuseppe Orofino, che era stato quest'ultimo a commissionargli il furto dell'auto; non solo, gli aveva anche raccontato che il fratello di un mafioso vicino ai Madonia aveva intercettato un'utenza telefonica per conoscere gli spostamenti di Paolo Borsellino e che ai preparativi della strage e alle operazioni di caricamento dell'esplosivo aveva partecipato anche il cognato Salvatore Profeta. Nell'interrogatorio del [[17 luglio]] [[2009]], dopo la confessione di [[Gaspare Spatuzza]], Andriotta riferì che: "''Io non sapevo nulla della strage di via d'Amelio, ma non sono io che ho costruito le cose. Il tutto è stato costruito dal dottore La Barbera e dal dottore Bo. Mi avevano promesso che mi avrebbero fatto togliere l'ergastolo. Me lo disse anche un giovane funzionario, che si chiamava pure La Barbera. Scarantino non mi ha detto nulla su via d'Amelio.''<ref>[http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2012/01/13/foto/interrogatorio_andriotta-27934838/#1 Andriotta: "Nudo alle tre del mattino all'aria aperta e con un cappio al collo", la Repubblica, 13 gennaio 2012]</ref>"
L'ipotesi dell'intercettazione venne invece confermata da Cecilia, figlia di [[Rita Borsellino]] e nipote di Paolo, che raccontò di aver notato, pochi giorni prima dell'attentato, un operaio intento a lavorare sulla cassetta dove passavano anche i cavi telefonici sul pianerottolo dell'abitazione, oltre ad aver visto una Panda azzurra parcheggiata di fronte al Palazzo con la scritta Elte; l'operaio fu individuato come '''Pietro Scotto''', dipendente della ditta Elte Spa, che venne poi rinviato a giudizio insieme a Scarantino, Orofino e Profeta.
== Il Processo ==
Il processo si aprì il [[4 ottobre]] [[1994]] presso la Corte d’Assise di Caltanissetta. Le prove derivanti dagli accertamenti sui reperti prelevati in via D’amelio, dai rilievi balistici, dai dati dei tecnici dell'FBI, dalle testimonianze degli abitanti e dalle dichiarazione del collaboratore di giustizia Vincenzo Scarantino portarono ad individuare come imputati, oltre allo stesso Scarantino, Pietro Scotto, Giuseppe Orofino e Salvatore Profeta.
=== Le dichiarazioni dei pentiti ===
Nel corso del primo Appello presso il Tribunale di Caltanissetta si susseguirono diciannove dichiarazioni di collaboratori di giustizia e tra queste se ne individuarono otto, ritenute particolarmente importanti per lo svolgimento dei processi.
==== Vincenzo Scarantino ====
Dichiarato “uomo d’onore riservato”, Scarantino operava nella zona della Guadagna di Palermo in cui riuscì a crearsi una buona nomea avendo iniziato la sua carriera criminale con due rapine all'età di undici anni. Egli sosteneva di essere in ottimi rapporti con Pietro Aglieri, uomo emergente sempre della Guadagna, e Salvatore Profeta, suo cognato e personalità di spicco all'interno di [[Cosa Nostra]]. Con la sua collaborazione, iniziata il [[24 giugno]] 1994, Scarantino rappresentò il punto di partenza da cui presero vita il primo processo e anche il “[[Processo Borsellino bis|Borsellino bis]]”, benché il suo percorso da collaboratore fu accompagnato da continue ritrattazioni, smentite e contraddizioni.
===== Riunione villa di Calascibetta =====
Scarantino come prima cosa riferì di un'importante riunione tenutasi nella villa di Giuseppe Calascibetta (fornendone un'accurata descrizione) per organizzare l'attentato al giudice Borsellino<ref>Giovanni Marletta (Presidente), Sent. Corte d’Assise d’Appello del Tribunale di Caltanissetta, 23 gennaio 1999, p.262</ref>. Dopo diversi interrogatori, nell'udienza del [[7 marzo]] [[1997]], il collaboratore individuò la data tra il 5 e l’8 luglio, affermando che vi parteciparono: [[Totò Riina]], Pietro Aglieri, Carlo Greco, [[Francesco Tagliavia]], [[Giuseppe Graviano]], Pietro Salemi, Giuseppe La Mattina, Natale Gambino, Giuseppe Calascibetta, Salvatore Profeta, Renzino Tinnirello, Salvatore Biondino, [[Giovanni Brusca]], Raffaele Ganci, Salvatore Cancemi, Mario Santo Di Matteo e Gioacchino La Barbera<ref>ivi p.261 e 281</ref>.
===== Furto, trasferimento e collocamento Fiat 126 =====
A proposito della Fiat 126, Scarantino dichiarò di aver commissionato su richiesta di Salvatore Profeta e Giuseppe Calasibetta il furto di un'auto di piccola cilindrata (poi individuata in una 126 di proprietà di Pietrina Valenti) a Salvatore Candura<ref>ivi p.282</ref>. Nell'interrogatorio del [[18 agosto]] 1994 riferì che due o tre giorni dopo il furto, verso le 23:30 in via Ammiraglio Graviano attese con Salvatore Tomaselli l'arrivo di Candura per la consegna dell’auto<ref>ivi p.286-287</ref>, condotta il giorno successivo nel magazzino di Tomaselli in via Guadagna<ref>ivi p.289</ref>. Dichiarò inoltre che il venerdì precedente la strage Cosimo Vermengo e Tanino Murana lo accompagnarono a prendere l’auto che guidò fino alla carrozzeria di Giuseppe Orofino, in via Messina Marine dove fu imbottita il sabato antecedente la strage<ref>ivi p.290</ref>.
Nell'interrogatorio del [[26 giugno]] 1994, il collaboratore dichiarò che alle 6:30 della domenica mattina la 126 fu trasferita da Renzino Tinirello, accompagnato con altre auto dallo stesso Scarantino, Pio La Mattina, Natale Gambino e Tanino Murana, in Piazza Leoni dove la parcheggiarono e se ne andarono come da accordi<ref>ivi p.294</ref>.
Il [[21 settembre]] 1994, infine, riferì che ad azionare il telecomando furono Renzino Tinirello, Pietro Aglieri e Francesco Tagliavia, sotto indicazione di Natale Gambino che li identificò come i “''tre con le corna d’acciaio''”<ref>ivi p.296</ref>.
==== Giova Battista Ferrante ====
Uomo d’onore dal 1980, Giovan Battista Ferrante fu affiliato alla famiglia di S.Lorenzo che faceva parte del mandamento di Partanna-Mondello. Partecipò agli omicidi eccellenti del dott. [[Rocco Chinnici]], di [[Salvo Lima]], del giudice [[Giovanni Falcone|Falcone]] e anche alla strage di via D’Amelio. La sua collaborazione, assieme a quella di Vincenzo Scarantino, Salvatore Cancemi, Calogero Ganci e Francesco Paolo Anzelmo, rappresentò il punto di partenza del processo “Borsellino bis”.
Nell'udienza del [[6 febbraio]] [[1997]], Ferrante dichiarò che tra le varie ragioni della sua scelta di collaborare vi fu anche la confessione di innocenza di Pietro Scotto, con cui condivideva la cella, accusato, ''in primis'' da Scarantino e successivamente riconosciuto in foto dai parenti di Borsellino, di essere il tecnico dell’impianto telefonico del condominio della famiglia Fiore-Borsellino che aveva effettuato un'intercettazione abusiva sull'utenza della famiglia Fiore, così da sapere i movimenti del giudice.
Il collaboratore riferì che disponevano di cinque telecomandi (tra cui quello utilizzato per via D’Amelio) custoditi nella casa di Piazza Maio e acquistati da Giuseppe Biondo su richiesta di Salvatore Biondino<ref>ivi p.54</ref> e che il sabato prima della strage, lui, Biondino e Salvatore Biondo andarono in zona “Case Ferreri” e testarono uno dei telecomandi<ref>ivi p.52</ref>. Nell'udienza del [[4 settembre]] 1997 dichiarò di aver partecipato il 19 luglio al “pattugliamento” della zona con il compito di comunicare l'arrivo del corteo di auto dal suo telefono cellulare<ref>ivi p.56</ref>. Poco dopo il boato raggiunse una villa in via Regione Siciliana dove potè confermare la presenza di dieci persone, tra cui Salvatore Cancemi, Domenico e Raffaele Ganci, Salvatore Biondo e Salvatore Biondino<ref>ivi p.59-60</ref>.
==== Salvatore Cancemi ====
Entrato in Cosa Nostra nel 1976, Salvatore Cancemi diventò componente della famiglia di Porta Nuova che faceva parte dell'omonimo mandamento capeggiato da Pippo Calò. Divenuto sottocapo, grazie agli ottimi rapporti con Raffaele Ganci e Totò Riina iniziò a partecipare dopo alcuni anni alle riunioni della Commissione. Nel luglio 1993, da latitante, si costituì con l'intenzione di collaborare perché non vedeva più in Cosa Nostra il rispetto di alcuni valori.
Per prima cosa, nell’udienza del 4 giugno 1997, rivelò l’organigramma della Commissione durante il '92, nominando mandamenti e relativi capi, specificandone la competenza decisionale sugli omicidi eccellenti<ref>ivi p.96</ref>. Specificò inoltre una riunione precisa tenutasi a casa di Girolamo Guddo tra giugno e luglio '92, cui parteciparono lo stesso Cancemi, Totò Riina, Salvatore Biondino e Raffaele Ganci<ref>ivi p.97-98</ref>. In quell'occasione il collaboratore riferì di aver sentito parlare Riina e Ganci della prossima strage affermando che sia Falcone sia Borsellino facevano parte di un unico grande disegno stragista poiché reputati i peggiori nemici di Cosa Nostra. Nella stessa udienza Cancemi descrisse gli avvenimenti del 19 luglio: la mattina passò a prenderlo Raffaele Ganci per poi dirigersi all'abitazione di Borsellino dove vide, perlustrando la zona, Salvatore Biondino, Salvatore Biondo, Giovan Battista Ferrante, Mimmo Ganci e Antonio Galliano. Dopo che Mimmo comunicò di non aver visto passare il giudice si rimandò l'operazione al pomeriggio<ref>ivi p.99-101</ref>. Cancemi rimase nella stalla del Priolo fino a quando, poco dopo le 17:00, arrivarono gli altri con anche Stefano Ganci e brindarono al buon esito<ref>ivi p.101</ref>. Infine, nell'udienza del [[13 ottobre]] 1997, il collaboratore dichiarò di aver saputo da Raffaele Ganci pochi giorni dopo la strage che vi parteciparono anche Pietro Aglieri, Carlo Greco, i fratelli Graviano, Ciccio Tagliavia e un certo Vitale con la casa in via D’Amelio<ref>ivi p.102</ref>.
==== Calogero Ganci ====
Figlio di Raffaele Ganci, appartenente al mandamento della Noce, iniziò a collaborare il 7 giugno 1996 perché colpito dall'omicidio del piccolo [[Santino Di Matteo]]<ref>ivi p.68-69)</ref>. La parte più rilevante della sua dichiarazione fu la conferma della partecipazione del padre alla strage in occasione di un altro processo dove ebbero modo di confrontarsi<ref>ivi p.74</ref>.
====Francesco Paolo Anzelmo====
Affiliato nel 1980, Anzelmo fece parte della famiglia della Noce prima aggregata al mandamento di Porta Nuova, poi divenuta un mandamento autonomo. Iniziò a collaborare il [[4 luglio]] 1996 perché non condivideva più le regole di Cosa Nostra. Anzelmo dichiarò fin da subito di non aver partecipato alla strage e di non conoscerne i fatti specifici. Specificò, tuttavia, l'importanza della Commissione e ne indicò la composizione<ref>ivi p.68-69</ref>.
====Antonio Galliano====
Antonio Galliano fu combinato come “uomo d’onore riservato” con l’obbligo di obbedire solo a suo zio Raffaele Ganci, reggente del mandamento della Noce. Iniziò a collaborare il [[19 luglio]] 1996. Galliano confermò che le stragi di Capaci e via D’Amelio furono il risultato della sentenze del Maxiprocesso. Nell'udienza del [[13 febbraio]] 1998, riferì che qualche giorno prima della strage Raffaele Ganci gli disse di tenersi libero per pedinare il giudice Borsellino, ma per problemi di lavoro si fece sostituire dal cugino Stefano Ganci<ref>ivi p.144</ref>. Dichiarò anche di aver appreso dal cugino Mimmo Ganci che sul luogo dell'attentato operavano Pietro Aglieri e i fratelli Graviano, mentre  i mandamenti di Porta Nuova, Noce e la famiglia si S.Lorenzo fungevano da” punto di appoggio”<ref>ivi p.147-148</ref>.
====Giovanni Brusca====
Entrato in Cosa Nostra nel 1976, Giovanni Brusca era figlio di Bernardo, reggente del mandamento di S. Giuseppe Jato, e figlioccio di Totò Riina. Nel 1989 sostituì il padre e partecipò a numerosi omicidi tra cui l'attentato al giudice Falcone.
Nell'udienza del [[28 maggio]] 1998 Brusca negò di aver partecipato alla riunione nella villa di Giuseppe Calascibetta, definendo Scarantino “''bugiardo''” e affermando di aver partecipato ad un’unica “microriunione” tenutasi nel marzo del '92 nella casa di Girolamo Guddo con la partecipazione anche di Riina, Salvatore Biondino, Salvatore Cancemi e Raffaele Ganci<ref>ivi p.150-151</ref>. Il collaboratore affermò di non conoscere i fratelli Gaetano e Pietro Scotto annullando ogni possibilità di intercettazioni telefoniche eseguite da Cosa Nostra. In ultimo Brusca dichiarò che la decisione di uccidere Borsellino fu il risultato di due obbiettivi: rafforzare con un altro attentato le condizioni presenti nel “papello” della Trattativa e impedire l'accelerazione delle indagini di competenza del giudice.
====Tullio Cannella====
Mai formalmente affiliato, Tullio Cannella fu imprenditore e vicesegretario della locale sezione di Brancaccio della DC. In quel contesto intrattenne rapporti coi fratelli Graviano, con la famiglia Greco, Leoluca Bagarella e altri. Iniziò a collaborare il 22 luglio 1995 durante il suo periodo di detenzione.
Il collaboratore affermò di aver instaurato ottimi rapporti con numerosi esponenti di Cosa Nostra mettendo a loro disposizione il suo villaggio “EUROMARE”<ref>ivi p.168</ref>. Nel 1993 ospitò latitante [[Leoluca Bagarella]] con il quale crebbe un rapporto di amicizia, riferendo anche nell'udienza del [[17 ottobre]] 1997 di aver pensato con Bagarella un nuovo movimento politico chiamato “''Sicilia Libera''” sotto il diretto controllo di Cosa Nostra. Sempre nella stessa udienza Cannella dichiarò di aver poi abbandonato l'idea all'inizio del '94 con l'avvento del partito Forza Italia con cui erano già stati confermati molti contatti<ref>ivi p.171</ref>. Il collaboratore affermò infine che la strage di via D'Amelio, come quella di Capaci, furono il frutto di interessi tra Cosa Nostra, potentati economici e logge massoniche<ref>ivi p.207</ref>.
===La sentenza===
Dopo 65 ore di camera di consiglio, il [[27 gennaio]] 1996 la Corte di Assise di Caltanissetta condannò:
* Giuseppe Orofino alla pena dell''''ergastolo''' per essersi procurato le disponibilità delle targhe e dei documenti di circolazione e assicurativi falsi che avevano permesso alla circolazione Fiat 126 di circolare e di essere parcheggiata in via D'Amelio;
* Vincenzo Scarantino alla pena di '''18 anni di reclusione''' e 4,5 milioni di multa per aver rubato, riempito di esplosivo e collocato in Via d'Amelio la Fiat 126, insieme a Salvatore Profeta, condannato all''''ergastolo'''.
* Pietro Scotto alla pena dell''''ergastolo''' per aver manomesso l'impianto telefonico del palazzo di via d'Amelio per sapere, grazie alle telefonate alla madre di Paolo Borsellino, gli spostamenti del magistrato.
Alla lettura della sentenza, Orofino sbatté la testa contro le sbarre della prigione urlando "''La vita m'arrubasti!''" e venne fermato sanguinante dai carabinieri. Nell'impassibilità di Scotto e Profeta, le familiari dei condannati scoppiano in grida e pianti. L'aula viene sgomberata e gli avvocati di parte civile scortati all'uscita.
== Ulteriori gradi di giudizio ==
=== Appello ===
Il processo si aprì il [[15 luglio]] 1997 davanti alla Corte d'Assise d'Appello di Caltanissetta, Presidente Giovanni Marletta, mentre i sostituti procuratori generali Salvatore Mastroeni e Roberto Sajeva rappresentavano l'accusa. Il [[23 gennaio]] 1999 venne emessa la sentenza. La Corte assolse Pietro Scotto, riduce la condanna di Giuseppe Orofino a 8 anni, derubricandola in favoreggiamento semplice. Venne confermato l'ergastolo di Salvatore Profeta<ref>Ivi, p.598</ref>.
=== Cassazione ===
Il [[18 gennaio]] [[2000]] la I Sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione, presieduta da Renato Teresi, confermò la sentenza della Corte d’Assise d'Appello nei confronti di ogni imputato, addebitando le relative spese processuali. L'ergastolo a Salvatore Profeta confermava dunque la responsabilità della famiglia di Santa Maria del Gesù nella strage in termini organizzativi e operativi<ref>Renato Teresi (Presidente), Sentenza n. 1090/00, I Sezione Penale, Corte Suprema di Cassazione, 18 dicembre 2000,
p.42-44</ref>.
== Note ==
<references></references>
== Bibliografia ==
*Renato Teresi (Presidente), Sentenza n. 1090/00, I Sezione Penale, Corte Suprema di Cassazione, 18 dicembre 2000
*Giovanni Marletta (Presidente), Sent. Corte d’Assise d’Appello del Tribunale di Caltanissetta, 23 gennaio 1999
*Renato Di Natale (Presidente), Sent. Corte d’Assise del Tribunale di Caltanissetta, 27 gennaio 1996
[[Categoria:Processi per la Strage di Via d'Amelio]]
[[Categoria:Processi per la Strage di Via d'Amelio]]

Versione attuale delle 15:22, 17 ott 2017

Con Processo Borsellino primo si intende il primo processo celebrato per accertare le responsabilità penali della Strage di Via Mariano d’Amelio, in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e gli uomini della scorta. Si basò sulle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Vincenzo Scarantino, che poi si scoprì essere false.

Antefatti: le indagini

Il Blocco Motore

Il mattino del 20 luglio 1992 la Polizia Scientifica, sotto le direttive del colonnello Vassale, iniziò il setacciamento della zona e il recupero del materiale ritenuto interessante. Da subito risultò che, per le caratteristiche del cratere formatosi, l'esplosivo non fosse a contatto col manto stradale, ma rialzato da terra.

Inoltre, fu rinvenuta dall'ispettore Paolo Egidi la carcassa di un motore, da subito ritenuta utile perché non ricollegabile ad alcuna auto presente sul luogo. Successivamente all'intervento di un tecnico Fiat fu individuata come un motore bicilindrico montato sulla Fiat 126 presente sul luogo della strage. Si pensò dunque al vano portabagagli come posizione per l’esplosivo perché compatibile con il peso della carica, stimato in 90 kg [1]

Le schede elettroniche

Sempre la mattina del 20 luglio furono rinvenute due schede elettroniche non riconducibili ad altri dispositivi presenti sul luogo. Su entrambe le schede era presente il logo “ST”, poi ricondotto alla ditta Telecom System. L'ingegnere della Telcoma, durante l’interrogatorio, le individuò come “componenti di un apparato altamente professionale del costo di due milioni di lire e utilizzato con attivazione a distanza". Affermò inoltre che il telecomando con l’antenna originale aveva una capacità di ricezione ottimale nel raggio di 300-500 metri[2], portando all'individuazione di due edifici da cui sarebbe partito il segnale: l'uno alla fine di via D’Amelio, a circa 200 metri e disabitato, l'altro vicino alla via Autonomia Siciliana, sempre disabitato e distante 250 metri[3]. I consulenti, infine, provarono la vicinanza delle schede al punto di scoppio rilevando dal loro danneggiamento tre aspetti: l'asportazione di molti componenti elettronici, segni di schiacciamento e la scheda di codifica parzialmente carbonizzata[4].

Deposizioni abitanti via D'Amelio

I consulenti individuarono, tra i testimoni sul luogo più attendibili, Antonio Genovese e Riccardo Rabita. Il primo riferì che il 19 luglio parcheggiò in via D’Amelio alle 15:30 e come suo solito osservò le auto posteggiate vicino, notando tra queste una Fiat 126 rossa sul punto preciso del cratere formatosi dopo l’attentato[5]. Ulteriore conferma della presenza dell'auto fu data dal secondo testimone, Riccardo Rabita, che dichiarò di aver visto al mattino una Fiat 126 amaranto parcheggiata[6].

La consulenza dei tecnici FBI

Il 21 luglio, sotto richiesta della magistratura, giunsero sul luogo dell’attentato tre tecnici dell'FBI, John Barret, Joseph Genovese e Robert Heckman. Nell'udienza del 17 maggio 1995 dichiararono di aver preso parte alle indagini al fine di identificare la posizione precisa della 126 con l'esplosivo. Condussero le indagini con l’utilizzo di spettometro e cromatografia a gas riscontrando sulla maggior parte dei reperti la presenza di RDX, miscela esplosiva composta da RDX (T4) e PETN (pentrite) con il nome di SEMTEX-H[7]. Infine esclusero che l'esplosivo potesse trovarsi a contatto col manto stradale[8].

La targa rubata e l'arresto di Scarantino

Sul luogo dell'esplosione venne rinvenuta anche la targa di un'altra Fiat 126 intestata ad Anna Maria Sferrazza, il cui furto era stato denunciato la mattina del 20 luglio da Giuseppe Orofino, titolare della carrozzeria dove l'auto della signora era stata lasciata in riparazione. Il particolare che colpì gli inquirenti era che l'auto non era stata rubata, ma lo erano stati i documenti e la targa. Gli investigatori decisero quindi di intercettare l'utenza telefonica di Simone Funari, marito di Pietrina Valenti, la signora che aveva denunciato il furto della Fiat 126 che invece si sospettava contenesse l'esplosivo.

Dall'ascolto delle telefonate gli investigatori scoprono un episodio di violenza carnale commesso su Cinzia Angiuli da parte di Luciano Valenti, fratello di Pietrina, nonché da Roberto Valenti e da Salvatore Candura: quest'ultimo, torchiato dagli inquirenti, confessò di essere l'autore del furto della Fiat 126, su commissione di Vincenzo Scarantino, che insieme ai fratelli gestiva diversi traffici illeciti nella zona della Guadagna ed era cognato di Salvatore Profeta, membro della cosca di Pietro Aglieri, già implicato nel Maxiprocesso di Palermo.

Il 26 settembre 1992 Vincenzo Scarantino venne arrestato per i reati di strage, furto aggravato e altro.

La testimonianza di Francesco Andriotta

Le indagini subirono una svolta con la collaborazione di Francesco Andriotta, che riferì che tra il giugno e l'agosto 1993, mentre era in carcere con Vincenzo Scarantino, questi gli rivelò, dopo la notizia dell'arresto del carrozziere Giuseppe Orofino, che era stato quest'ultimo a commissionargli il furto dell'auto; non solo, gli aveva anche raccontato che il fratello di un mafioso vicino ai Madonia aveva intercettato un'utenza telefonica per conoscere gli spostamenti di Paolo Borsellino e che ai preparativi della strage e alle operazioni di caricamento dell'esplosivo aveva partecipato anche il cognato Salvatore Profeta. Nell'interrogatorio del 17 luglio 2009, dopo la confessione di Gaspare Spatuzza, Andriotta riferì che: "Io non sapevo nulla della strage di via d'Amelio, ma non sono io che ho costruito le cose. Il tutto è stato costruito dal dottore La Barbera e dal dottore Bo. Mi avevano promesso che mi avrebbero fatto togliere l'ergastolo. Me lo disse anche un giovane funzionario, che si chiamava pure La Barbera. Scarantino non mi ha detto nulla su via d'Amelio.[9]"

L'ipotesi dell'intercettazione venne invece confermata da Cecilia, figlia di Rita Borsellino e nipote di Paolo, che raccontò di aver notato, pochi giorni prima dell'attentato, un operaio intento a lavorare sulla cassetta dove passavano anche i cavi telefonici sul pianerottolo dell'abitazione, oltre ad aver visto una Panda azzurra parcheggiata di fronte al Palazzo con la scritta Elte; l'operaio fu individuato come Pietro Scotto, dipendente della ditta Elte Spa, che venne poi rinviato a giudizio insieme a Scarantino, Orofino e Profeta.

Il Processo

Il processo si aprì il 4 ottobre 1994 presso la Corte d’Assise di Caltanissetta. Le prove derivanti dagli accertamenti sui reperti prelevati in via D’amelio, dai rilievi balistici, dai dati dei tecnici dell'FBI, dalle testimonianze degli abitanti e dalle dichiarazione del collaboratore di giustizia Vincenzo Scarantino portarono ad individuare come imputati, oltre allo stesso Scarantino, Pietro Scotto, Giuseppe Orofino e Salvatore Profeta.

Le dichiarazioni dei pentiti

Nel corso del primo Appello presso il Tribunale di Caltanissetta si susseguirono diciannove dichiarazioni di collaboratori di giustizia e tra queste se ne individuarono otto, ritenute particolarmente importanti per lo svolgimento dei processi.

Vincenzo Scarantino

Dichiarato “uomo d’onore riservato”, Scarantino operava nella zona della Guadagna di Palermo in cui riuscì a crearsi una buona nomea avendo iniziato la sua carriera criminale con due rapine all'età di undici anni. Egli sosteneva di essere in ottimi rapporti con Pietro Aglieri, uomo emergente sempre della Guadagna, e Salvatore Profeta, suo cognato e personalità di spicco all'interno di Cosa Nostra. Con la sua collaborazione, iniziata il 24 giugno 1994, Scarantino rappresentò il punto di partenza da cui presero vita il primo processo e anche il “Borsellino bis”, benché il suo percorso da collaboratore fu accompagnato da continue ritrattazioni, smentite e contraddizioni.

Riunione villa di Calascibetta

Scarantino come prima cosa riferì di un'importante riunione tenutasi nella villa di Giuseppe Calascibetta (fornendone un'accurata descrizione) per organizzare l'attentato al giudice Borsellino[10]. Dopo diversi interrogatori, nell'udienza del 7 marzo 1997, il collaboratore individuò la data tra il 5 e l’8 luglio, affermando che vi parteciparono: Totò Riina, Pietro Aglieri, Carlo Greco, Francesco Tagliavia, Giuseppe Graviano, Pietro Salemi, Giuseppe La Mattina, Natale Gambino, Giuseppe Calascibetta, Salvatore Profeta, Renzino Tinnirello, Salvatore Biondino, Giovanni Brusca, Raffaele Ganci, Salvatore Cancemi, Mario Santo Di Matteo e Gioacchino La Barbera[11].

Furto, trasferimento e collocamento Fiat 126

A proposito della Fiat 126, Scarantino dichiarò di aver commissionato su richiesta di Salvatore Profeta e Giuseppe Calasibetta il furto di un'auto di piccola cilindrata (poi individuata in una 126 di proprietà di Pietrina Valenti) a Salvatore Candura[12]. Nell'interrogatorio del 18 agosto 1994 riferì che due o tre giorni dopo il furto, verso le 23:30 in via Ammiraglio Graviano attese con Salvatore Tomaselli l'arrivo di Candura per la consegna dell’auto[13], condotta il giorno successivo nel magazzino di Tomaselli in via Guadagna[14]. Dichiarò inoltre che il venerdì precedente la strage Cosimo Vermengo e Tanino Murana lo accompagnarono a prendere l’auto che guidò fino alla carrozzeria di Giuseppe Orofino, in via Messina Marine dove fu imbottita il sabato antecedente la strage[15].

Nell'interrogatorio del 26 giugno 1994, il collaboratore dichiarò che alle 6:30 della domenica mattina la 126 fu trasferita da Renzino Tinirello, accompagnato con altre auto dallo stesso Scarantino, Pio La Mattina, Natale Gambino e Tanino Murana, in Piazza Leoni dove la parcheggiarono e se ne andarono come da accordi[16]. Il 21 settembre 1994, infine, riferì che ad azionare il telecomando furono Renzino Tinirello, Pietro Aglieri e Francesco Tagliavia, sotto indicazione di Natale Gambino che li identificò come i “tre con le corna d’acciaio[17].

Giova Battista Ferrante

Uomo d’onore dal 1980, Giovan Battista Ferrante fu affiliato alla famiglia di S.Lorenzo che faceva parte del mandamento di Partanna-Mondello. Partecipò agli omicidi eccellenti del dott. Rocco Chinnici, di Salvo Lima, del giudice Falcone e anche alla strage di via D’Amelio. La sua collaborazione, assieme a quella di Vincenzo Scarantino, Salvatore Cancemi, Calogero Ganci e Francesco Paolo Anzelmo, rappresentò il punto di partenza del processo “Borsellino bis”.

Nell'udienza del 6 febbraio 1997, Ferrante dichiarò che tra le varie ragioni della sua scelta di collaborare vi fu anche la confessione di innocenza di Pietro Scotto, con cui condivideva la cella, accusato, in primis da Scarantino e successivamente riconosciuto in foto dai parenti di Borsellino, di essere il tecnico dell’impianto telefonico del condominio della famiglia Fiore-Borsellino che aveva effettuato un'intercettazione abusiva sull'utenza della famiglia Fiore, così da sapere i movimenti del giudice.

Il collaboratore riferì che disponevano di cinque telecomandi (tra cui quello utilizzato per via D’Amelio) custoditi nella casa di Piazza Maio e acquistati da Giuseppe Biondo su richiesta di Salvatore Biondino[18] e che il sabato prima della strage, lui, Biondino e Salvatore Biondo andarono in zona “Case Ferreri” e testarono uno dei telecomandi[19]. Nell'udienza del 4 settembre 1997 dichiarò di aver partecipato il 19 luglio al “pattugliamento” della zona con il compito di comunicare l'arrivo del corteo di auto dal suo telefono cellulare[20]. Poco dopo il boato raggiunse una villa in via Regione Siciliana dove potè confermare la presenza di dieci persone, tra cui Salvatore Cancemi, Domenico e Raffaele Ganci, Salvatore Biondo e Salvatore Biondino[21].

Salvatore Cancemi

Entrato in Cosa Nostra nel 1976, Salvatore Cancemi diventò componente della famiglia di Porta Nuova che faceva parte dell'omonimo mandamento capeggiato da Pippo Calò. Divenuto sottocapo, grazie agli ottimi rapporti con Raffaele Ganci e Totò Riina iniziò a partecipare dopo alcuni anni alle riunioni della Commissione. Nel luglio 1993, da latitante, si costituì con l'intenzione di collaborare perché non vedeva più in Cosa Nostra il rispetto di alcuni valori.

Per prima cosa, nell’udienza del 4 giugno 1997, rivelò l’organigramma della Commissione durante il '92, nominando mandamenti e relativi capi, specificandone la competenza decisionale sugli omicidi eccellenti[22]. Specificò inoltre una riunione precisa tenutasi a casa di Girolamo Guddo tra giugno e luglio '92, cui parteciparono lo stesso Cancemi, Totò Riina, Salvatore Biondino e Raffaele Ganci[23]. In quell'occasione il collaboratore riferì di aver sentito parlare Riina e Ganci della prossima strage affermando che sia Falcone sia Borsellino facevano parte di un unico grande disegno stragista poiché reputati i peggiori nemici di Cosa Nostra. Nella stessa udienza Cancemi descrisse gli avvenimenti del 19 luglio: la mattina passò a prenderlo Raffaele Ganci per poi dirigersi all'abitazione di Borsellino dove vide, perlustrando la zona, Salvatore Biondino, Salvatore Biondo, Giovan Battista Ferrante, Mimmo Ganci e Antonio Galliano. Dopo che Mimmo comunicò di non aver visto passare il giudice si rimandò l'operazione al pomeriggio[24]. Cancemi rimase nella stalla del Priolo fino a quando, poco dopo le 17:00, arrivarono gli altri con anche Stefano Ganci e brindarono al buon esito[25]. Infine, nell'udienza del 13 ottobre 1997, il collaboratore dichiarò di aver saputo da Raffaele Ganci pochi giorni dopo la strage che vi parteciparono anche Pietro Aglieri, Carlo Greco, i fratelli Graviano, Ciccio Tagliavia e un certo Vitale con la casa in via D’Amelio[26].

Calogero Ganci

Figlio di Raffaele Ganci, appartenente al mandamento della Noce, iniziò a collaborare il 7 giugno 1996 perché colpito dall'omicidio del piccolo Santino Di Matteo[27]. La parte più rilevante della sua dichiarazione fu la conferma della partecipazione del padre alla strage in occasione di un altro processo dove ebbero modo di confrontarsi[28].

Francesco Paolo Anzelmo

Affiliato nel 1980, Anzelmo fece parte della famiglia della Noce prima aggregata al mandamento di Porta Nuova, poi divenuta un mandamento autonomo. Iniziò a collaborare il 4 luglio 1996 perché non condivideva più le regole di Cosa Nostra. Anzelmo dichiarò fin da subito di non aver partecipato alla strage e di non conoscerne i fatti specifici. Specificò, tuttavia, l'importanza della Commissione e ne indicò la composizione[29].

Antonio Galliano

Antonio Galliano fu combinato come “uomo d’onore riservato” con l’obbligo di obbedire solo a suo zio Raffaele Ganci, reggente del mandamento della Noce. Iniziò a collaborare il 19 luglio 1996. Galliano confermò che le stragi di Capaci e via D’Amelio furono il risultato della sentenze del Maxiprocesso. Nell'udienza del 13 febbraio 1998, riferì che qualche giorno prima della strage Raffaele Ganci gli disse di tenersi libero per pedinare il giudice Borsellino, ma per problemi di lavoro si fece sostituire dal cugino Stefano Ganci[30]. Dichiarò anche di aver appreso dal cugino Mimmo Ganci che sul luogo dell'attentato operavano Pietro Aglieri e i fratelli Graviano, mentre i mandamenti di Porta Nuova, Noce e la famiglia si S.Lorenzo fungevano da” punto di appoggio”[31].

Giovanni Brusca

Entrato in Cosa Nostra nel 1976, Giovanni Brusca era figlio di Bernardo, reggente del mandamento di S. Giuseppe Jato, e figlioccio di Totò Riina. Nel 1989 sostituì il padre e partecipò a numerosi omicidi tra cui l'attentato al giudice Falcone.

Nell'udienza del 28 maggio 1998 Brusca negò di aver partecipato alla riunione nella villa di Giuseppe Calascibetta, definendo Scarantino “bugiardo” e affermando di aver partecipato ad un’unica “microriunione” tenutasi nel marzo del '92 nella casa di Girolamo Guddo con la partecipazione anche di Riina, Salvatore Biondino, Salvatore Cancemi e Raffaele Ganci[32]. Il collaboratore affermò di non conoscere i fratelli Gaetano e Pietro Scotto annullando ogni possibilità di intercettazioni telefoniche eseguite da Cosa Nostra. In ultimo Brusca dichiarò che la decisione di uccidere Borsellino fu il risultato di due obbiettivi: rafforzare con un altro attentato le condizioni presenti nel “papello” della Trattativa e impedire l'accelerazione delle indagini di competenza del giudice.

Tullio Cannella

Mai formalmente affiliato, Tullio Cannella fu imprenditore e vicesegretario della locale sezione di Brancaccio della DC. In quel contesto intrattenne rapporti coi fratelli Graviano, con la famiglia Greco, Leoluca Bagarella e altri. Iniziò a collaborare il 22 luglio 1995 durante il suo periodo di detenzione.

Il collaboratore affermò di aver instaurato ottimi rapporti con numerosi esponenti di Cosa Nostra mettendo a loro disposizione il suo villaggio “EUROMARE”[33]. Nel 1993 ospitò latitante Leoluca Bagarella con il quale crebbe un rapporto di amicizia, riferendo anche nell'udienza del 17 ottobre 1997 di aver pensato con Bagarella un nuovo movimento politico chiamato “Sicilia Libera” sotto il diretto controllo di Cosa Nostra. Sempre nella stessa udienza Cannella dichiarò di aver poi abbandonato l'idea all'inizio del '94 con l'avvento del partito Forza Italia con cui erano già stati confermati molti contatti[34]. Il collaboratore affermò infine che la strage di via D'Amelio, come quella di Capaci, furono il frutto di interessi tra Cosa Nostra, potentati economici e logge massoniche[35].

La sentenza

Dopo 65 ore di camera di consiglio, il 27 gennaio 1996 la Corte di Assise di Caltanissetta condannò:

  • Giuseppe Orofino alla pena dell'ergastolo per essersi procurato le disponibilità delle targhe e dei documenti di circolazione e assicurativi falsi che avevano permesso alla circolazione Fiat 126 di circolare e di essere parcheggiata in via D'Amelio;
  • Vincenzo Scarantino alla pena di 18 anni di reclusione e 4,5 milioni di multa per aver rubato, riempito di esplosivo e collocato in Via d'Amelio la Fiat 126, insieme a Salvatore Profeta, condannato all'ergastolo.
  • Pietro Scotto alla pena dell'ergastolo per aver manomesso l'impianto telefonico del palazzo di via d'Amelio per sapere, grazie alle telefonate alla madre di Paolo Borsellino, gli spostamenti del magistrato.

Alla lettura della sentenza, Orofino sbatté la testa contro le sbarre della prigione urlando "La vita m'arrubasti!" e venne fermato sanguinante dai carabinieri. Nell'impassibilità di Scotto e Profeta, le familiari dei condannati scoppiano in grida e pianti. L'aula viene sgomberata e gli avvocati di parte civile scortati all'uscita.

Ulteriori gradi di giudizio

Appello

Il processo si aprì il 15 luglio 1997 davanti alla Corte d'Assise d'Appello di Caltanissetta, Presidente Giovanni Marletta, mentre i sostituti procuratori generali Salvatore Mastroeni e Roberto Sajeva rappresentavano l'accusa. Il 23 gennaio 1999 venne emessa la sentenza. La Corte assolse Pietro Scotto, riduce la condanna di Giuseppe Orofino a 8 anni, derubricandola in favoreggiamento semplice. Venne confermato l'ergastolo di Salvatore Profeta[36].

Cassazione

Il 18 gennaio 2000 la I Sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione, presieduta da Renato Teresi, confermò la sentenza della Corte d’Assise d'Appello nei confronti di ogni imputato, addebitando le relative spese processuali. L'ergastolo a Salvatore Profeta confermava dunque la responsabilità della famiglia di Santa Maria del Gesù nella strage in termini organizzativi e operativi[37].

Note

  1. Renato Di Natale (Presidente), Sent. Corte d’Assise del Tribunale di Caltanissetta, 27 gennaio 1996, pp.50-56
  2. ivi p. 71-72
  3. ivi p.74-75
  4. ivi p.73-74
  5. ivi p.75
  6. Ibidem
  7. ivi p.59-60
  8. ivi p.61
  9. Andriotta: "Nudo alle tre del mattino all'aria aperta e con un cappio al collo", la Repubblica, 13 gennaio 2012
  10. Giovanni Marletta (Presidente), Sent. Corte d’Assise d’Appello del Tribunale di Caltanissetta, 23 gennaio 1999, p.262
  11. ivi p.261 e 281
  12. ivi p.282
  13. ivi p.286-287
  14. ivi p.289
  15. ivi p.290
  16. ivi p.294
  17. ivi p.296
  18. ivi p.54
  19. ivi p.52
  20. ivi p.56
  21. ivi p.59-60
  22. ivi p.96
  23. ivi p.97-98
  24. ivi p.99-101
  25. ivi p.101
  26. ivi p.102
  27. ivi p.68-69)
  28. ivi p.74
  29. ivi p.68-69
  30. ivi p.144
  31. ivi p.147-148
  32. ivi p.150-151
  33. ivi p.168
  34. ivi p.171
  35. ivi p.207
  36. Ivi, p.598
  37. Renato Teresi (Presidente), Sentenza n. 1090/00, I Sezione Penale, Corte Suprema di Cassazione, 18 dicembre 2000, p.42-44

Bibliografia

  • Renato Teresi (Presidente), Sentenza n. 1090/00, I Sezione Penale, Corte Suprema di Cassazione, 18 dicembre 2000
  • Giovanni Marletta (Presidente), Sent. Corte d’Assise d’Appello del Tribunale di Caltanissetta, 23 gennaio 1999
  • Renato Di Natale (Presidente), Sent. Corte d’Assise del Tribunale di Caltanissetta, 27 gennaio 1996