Cosimo Cristina

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Cosimo Cristina (Termini Imerese, 11 agosto 1935 – Termini Imerese, 5 maggio 1960) è stato il primo giornalista italiano ucciso da Cosa Nostra in Sicilia. Per oltre trent'anni la sua morte è stata considerata un suicidio.

Cosimo Cristina

Biografia

Iniziò giovanissimo la carriera di giornalista, a vent'anni. Scriveva per poche lire al pezzo e parlava di mafia, negli anni in cui le maggioranze politiche a guida Democrazia Cristiana che dominavano in Sicilia sostenevano fosse un'invenzione dei comunisti. Nel quinquennio 1955 - 1960 colse la trasformazione delle cosche della sua città, per la quale la politica aveva deciso un futuro industriale. Nel 1956 divenne corrispondente de l'Ora di Palermo, mentre nel 1959 fondò il periodico "Prospettive Siciliane" con l'amico Giovanni Cappuzzo, di cui divenne Direttore. Il primo articolo uscì il 25 dicembre. Contemporaneamente scriveva articoli anche per l'agenzia ANSA, per il Messaggero di Roma, il Giorno di Milano e il Gazzettino di Venezia.

Per via dei baffetti sottili e del folto pizzetto, molti lo chiamavano D'Artagnan, come il celebre personaggio del romanzo di Dumas[1]. Su Prospettive Siciliane diede vita a una serie d'inchieste sugli affari che la mafia siciliana stava realizzando nelle Madonie, tentando di analizzare il fenomeno nella sua evoluzione e di tracciare i legami che la mafia assumeva con le forze politiche locali.

Come ricordò Giuseppe Francese[2], già dai titoli scelti per gli articoli di “Prospettive Siciliane” era facilmente intuibile il peso delle sue inchieste: “La strada per la droga passa per Palermo”; “Agostino Tripi è stato ucciso dalla mafia?”; “La verità sull’omicidio dell’industriale Pusateri”; “Ecco chi sono Giovanni Cammarata, Antonio Malta e Alessandro Alagna, incriminati per l’uccisione del capomafia di Valledolmo”.

L'inchiesta sui frati di Mazzarino

Tra le inchieste su cui Cristina si era buttato anima e corpo, vi fu quella riguardante l’uccisione del sacerdote Pasquale Culotta, avvenuta a Cefalù nel 1955 e del processo dell'omicidio di Carmelo Giallombardo, il cui cadavere fu trovato mutilato lungo la strada ferrata Palermo-Messina. Particolare interesse suscitarono in Cosimo Cristina la serie di estorsioni e gli attentati, avvenuti a Mazzarino alla fine degli anni ‘50, culminati con l’omicidio del cavaliere Angelo Cannada, avvenuto il 5 maggio 1959 e con il tentato omicidio del vigile urbano, Giovanni Stuppìa. Il velo dell'omertà fu squarciato con l’arresto dell'ortolano del convento dei monaci, tale Carmelo Lo Bartolo. Il magistrato tuttavia non fece in tempo a interrogarlo: lo trovarono cadavere dentro la sua cella, causa del decesso: "asfissia da ostruzione meccanica delle vie respiratorie", secondo la perizia del medico legale. “Me lo hanno suicidato”, sosteneva invece la moglie (e qualche ragione in effetti l'aveva: la maggior parte di impiccati muore non per soffocamento, ma per rottura di una vertebra cervicale).

Il 16 febbraio 1960 il procuratore Lamia spiccava ordini di cattura per quattro frati del convento di Mazzarino. L'accusa per tutti era di associazione per delinquere, simulazione di reato, omicidio, estorsioni e violenze private. Una vicenda che fece scalpore e che divise l’Italia[3].

Il 26 febbraio 1960, sulla prima pagina di "Prospettive Siciliane" apparve un titolo a nove colonne: "Avvocato di Mazzarino, corrispondente di un noto giornale siciliano, è il capo della famigerata banda dei monaci". Nell'articolo che ne seguiva, a firma del direttore, non veniva però indicato il nome del professionista coinvolto nella vicenda. A Mazzarino, in quel periodo, tre avvocati collaboravano per altrettanti giornali siciliani. Uno di loro, per la verità, non scriveva ormai da molto tempo. Dei tre, soltanto l’avvocato Alfonso Russo Cigna, collaboratore del "Giornale di Sicilia", ritenendo l’articolo lesivo della sua onorabilità di professionista e di uomo, querelò per diffamazione a mezzo stampa Cristina.

Benché Cristina fosse sicuro di vincere la battaglia legale, dato che non vi era alcun nome contenuto nel suo articolo, dopo un breve processo iniziato il 10 Marzo 1960 e conclusosi il 30 dello stesso mese, Cristina, ritenuto colpevole del reato ascrittogli, veniva condannato alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione, nonché al risarcimento dei danni da liquidarsi nella misura di due milioni di lire. Cosimo Cristina incredulo, amareggiato, ma per niente rassegnato, ricorse in appello, sicuro di vincere e raccogliendo ulteriore materiale per la propria difesa.

La "notizia bomba" e l'omicidio

La mattina del 3 maggio, Cristina uscì di casa verso le 11:00 ben vestito, col solito cravattino, rasato di fresco e accuratamente profumato[4]. Non vedendolo rincasare la sera, i genitori e le tre sorelle si preoccuparono, ma non troppo: già altre volte era capitato che Cosimo tornasse molto tardi e l'indomani raccontasse i particolari di un'inchiesta alla quale stava lavorando: in effetti, il giorno prima aveva detto che sarebbe uscita una "notizia bomba" sul giornale "l'Ora di Palermo", con cui però non collaborava più da qualche mese, stando ai racconti dei familiari. Intorno a lui in quel periodo si era infatti creato il vuoto e per rimediare un po' di soldi si era fatto assumere in un'importante torrefazione, dalla quale però fu licenziato poco prima di morire senza alcuna spiegazione plausibile (dopo la sua morte il proprietario assunse sua sorella).

Tuttavia, dopo quella mattina del 3 maggio Cosimo Cristina non fece più ritorno a casa.

Il suo corpo fu ritrovato alle 15:35 del 5 maggio dal guardalinee Bernardo Rizzo di Roccapalumba: era disteso al centro dei binari, a pancia in su e con la testa che sfiorava la rotaia, nei pressi della galleria Fossola di Termini Imerese. Per terra furono trovati il portafoglio, un mazzo di chiavi e un portasigarette. In tasca aveva una schedina del totocalcio e due biglietti: uno per la fidanzata, Enza Venturelli, l'altro per l'amico Giovanni Cappuzzo, con i quali si scusava per il gesto estremo. Nessun messaggio invece per la madre e per le tre sorelle alle quali era molto legato.

Tra i primi ad accorrere sul luogo del ritrovamento fu proprio il padre di Cosimo, Luigi, dipendente delle Ferrovie, che non poteva certo immaginare di ritrovare il corpo del figlio senza vita.

Le indagini e la falsa pista del suicidio

Il caso venne subito inquadrato come "suicidio" per via dei due biglietti (su cui non fu mai eseguita una perizia calligrafica), ma vi erano alcune incongruenze con questa ipotesi, come venne scritto su "l'Ora di Palermo": "Cosimo Cristina fu trovato al centro dei binari con la testa poggiata al binario di destra. Ma il fendente, che era visibile sulla testa, era sulla parte sinistra. Inoltre, il convoglio che avrebbe dovuto investirlo proveniva da Palermo. Il cadavere era posto in modo tale che i piedi si trovava no in direzione della città, mentre le spalle verso Termini. Tutti gli oggetti appartenenti alla vittima furono ritrovati tra il cadavere e il lato dal quale era giunto il convoglio. Furono pertanto sovvertiti tutti i principi relativi allo spostamento d’aria, il cui risucchio porta un qualsiasi oggetto lungo la scia della direzione di marcia"[5].

Non solo: sul corpo furono riscontrati parecchi ematomi ed evidenti macchie di defecazione sulle natiche e sulle gambe, probabilmente causate da avvelenamento: tra le varie ipotesi circolate negli anni per spiegarne l'origine vi fu anche quella che Cristina fosse stato costretto ad assumere forti dosi di medicinali, che lo avrebbero stordito. Inoltre, le ecchimosi presenti sui corpo non potevano giustificarsi in un cadavere che aveva subito un forte dissanguamento, come nel suo caso, e che quindi avvaloravano l'ipotesi che fossero state provocate prima del "suicidio". Inoltre, il corpo, perfettamente integro, con solo un'evidente ferita alla nuca e nessuna frattura, era alquanto incompatibile con un qualsiasi corpo colpito da un treno in corsa o finito sotto le sue rotaie.

Un altro elemento che sembrerebbe mettere in discussione la tesi del suicidio è costituito da un particolare, evidenziato più volte dall'amico Cappuzzo, che non è mai stato reso pubblico: il cadavere, quel giorno, fu ritrovato con una scarpa sola. «Che fine ha fatto l'altra scarpa?».

Proprio per questi motivi lo zio, Filippo Cristina, richiese l'autopsia, ma gli investigatori non la ritennero necessaria e restituirono il cadavere alla famiglia. I funerali si celebrarono il giorno dopo, la la Chiesa vietò la benedizione della salma di un morto suicida e nessun sacerdote fu disposto a officiare la funzione religiosa. «I funerali si svolsero all'insegna della miseria», annotarono alcuni cronisti presenti.

Le nuove indagini di Angelo Mangano

Per sei anni sulla vicenda calò il silenzio. Tuttavia, il 16 aprile 1966, durante una riunione tra i questori della Sicilia, fu deciso di dare vita al "Centro regionale di coordinamento per la polizia criminale" con lo scopo di indagare sui tanti delitti rimasti impuniti in quegli anni, la cui direzione fu affidata al vice-questore di Palermo Angelo Mangano, passato all'onore delle cronache per aver catturato nel 1964 la "Primula Rossa" di Corleone, Luciano Leggio.

In poco più di due mesi di indagini prese vita il c.d. "Dossier del nucleo Mangano sui misteri delle Madonie" e il caso Cristina venne riaperto.

Nel corso delle indagini fu più volte sentito dagli inquirenti il professor Giovanni Cappuzzo, amico d'infanzia di Cosimo con cui aveva condiviso gli ultimi anni nella redazione di "Prospettive Siciliane": questi raccontò di essere stato avvicinato da tale Accursio Mendola, figlio adottivo del boss Emanuele Nobile, il quale gli consigliò di stare molto attento e di abbandonare al suo destino Cosimo, già condannato a morte da un "tribunale di mafia". Interrogato dai magistrati, Mendola confermò incredibilmente l'episodio, tanto da guadagnarsi subito il titolo di "Valachi delle Madonie" (Joe Valachi fu il primo pentito di Cosa Nostra Americana).

Anche sulla scorta di queste dichiarazioni, in un'intervista rilasciata nel programma televisivo "Cordialmente", trasmessa su Rai2, Mangano affermò di aver raccolto le prove che dimostravano la matrice mafiosa dell'omicidio di Cosimo Cristina.

Coinvolti nella sua morte, secondo il rapporto Mangano, sarebbero stati Giuseppe lngrao, detto "cazzotto", (morto nel 1961 e ritrovato cadavere nella stessa galleria dove fu ritrovato Cristina) e Luigi Longo, detto "fezza d’olio", in quanto lavorava in un frantoio, nonché Santo Gaeta, suo figlio Giuseppe, Agostino Rubino, Giuseppe Panzeca, Orazio Lesina Calà e Vincenzo Sorci[6]. Secondo la ricostruzione di Mangano, Cosimo Cristina sarebbe stato tramortito da un colpo di spranga alla testa e solo successivamente gettato sui binari della galleria.

L'inchiesta che venne considerata all'origine della condanna a morte sarebbe stata quella sull'omicidio del pregiudicato Agostino Tripi. Il 12 luglio 1966, quindi, il corpo di Cristina venne riesumato per l'autopsia. Tuttavia, le relazioni depositate dai periti Marco Stassi e Ideale Del Carpio, in contrasto con le tesi del nucleo di coordinamento regionale per la lotta alla criminalità, stabilivano che si trattava di un chiaro caso di suicidio, benché l'autopsia fosse oramai stata eseguita su uno scheletro. Il caso fu pertanto nuovamente archiviato come suicidio.

Ad oggi, per la giustizia italiana Cosimo Cristina continua ad essere un giornalista morto suicida. Tuttavia, è storicamente considerato a tutti gli effetti una vittima di mafia. Nel 2000 con una raccolta firme si chiese alla Procura di Palermo di riaprire il caso, ma non andò a buon fine.

In memoria di Cosimo Cristina

  • Il 5 maggio 2010, per il cinquantesimo anniversario della morte di Cosimo Cristina, la rivista Espero insieme al Comune di Termini Imerese e all’Ordine dei Giornalisti di Sicilia decisero di mettere una lapide nel luogo in cui venne trovato il corpo.
  • Il 5 maggio 2013, durante la manifestazione “Infiorata Termitana” (importante manifestazione che si svolge a Termini Imerese), il giornale Espero ha organizzato un recital di poesie dedicate a Cosimo Cristina ed ha raccontato la vita del giornalista davanti alla presenza di tutti i cittadini.
  • Il 14 settembre 2016, durante una cerimonia nel Giardino della Memoria di Ciaculli, sono stati piantati due alberi per ricordare il giudice Alberto Giacomelli e il giornalista Cosimo Cristina. L’iniziativa è stata realizzata dall’Unione nazionale cronisti italiani e dall’Associazione nazionale magistrati. Gli alberi sono stati piantati in un terreno confiscato alla mafia, e gestito dal 2005 da queste due realtà.
  • Il 5 maggio 2018 ha avuto luogo una cerimonia di commemorazione a distanza di 58 anni dalla morte di Cosimo Cristina. L’iniziativa dal titolo “Parole per ricordare Co.Cri” (come si firmava nei suoi articoli), organizzata dal giornale Espero con il patrocinio del Comune di Termini Imerese e la collaborazione dell’Istituto Superiore Stenio, ha visto le riflessioni degli studenti.

Note

  1. Citato in Gianluca Caltanissetta, Cosimo Cristina, il cronista scomodo, la Repubblica, 6 maggio 2007
  2. Giuseppe Francese, "Suicidato" dalla mafia?, L'inchiesta Sicilia, 22 aprile - 5 maggio 1998
  3. La vicenda è raccontata nel libro di Giorgio Frasca Polara, "La terribile istoria dei frati di Mazzarino", edito da Sellerio
  4. Citato in Giuseppe Francese
  5. Ibidem
  6. Ibidem

Bibliografia

  • Vincenzo Buonadonna, "Cosimo Cristina", in "Giornata della Memoria dei giornalisti uccisi da mafie e terrorismo", UNCI, 2008
  • Gianluca Caltanissetta, Cosimo Cristina, il cronista scomodo, la Repubblica, 6 maggio 2007
  • Giuseppe Francese, "Suicidato" dalla mafia?, L'inchiesta Sicilia, 22 aprile - 5 maggio 1998
  • Luciano Mirone, Gli Insabbiati. Storie di giornalisti uccisi dalla mafia e sepolti dall'indifferenza, Roma, Castelvecchi, 1999