Omertà
L'omertà è un comportamento tipico della mentalità mafiosa, in base al quale si rispetta «la legge del silenzio» in merito alla possibilità di fornire elementi o informazioni all'autorità giudiziaria riguardanti fatti delittuosi. L'omertà è fondamentale perché strumentale al conseguimento dell'impunità per gli affiliati all'organizzazione.
Origine del termine
Sull'origine della parola non vi è unanime consenso tra gli studiosi. Come ricorda Isaia Sales[1], nel Nuovo vocabolario siciliano-italiano di Antonino Traina del 1868 omertà veniva definita come «l’insieme delle qualità dell’uomo d’onore», mentre nel Vocabolario napoletano-toscano di Renato D’Ambra (del 1873) veniva ricordato che la parola omertà era inequivocabilmente abbinata al significato di umiltà già in un testo poetico del 1722. Nei dizionari della fine del XIX secolo, l’identificazione tra omertà e umiltà era in effetti quasi unanime: era così descritta nel Morisani e nell'Accattatis si definiva omertà «come variante di umirtà, umiltà, sottomissione, segno di rispetto».
L'interpretazione di Giuseppe Pitrè
Ad associare la parola omertà a "ominità", cioè silenzio e reticenza a virilità e coraggio, fu l'etnologo Giuseppe Pitrè, noto per la sua interpretazione benevola nei confronti del fenomeno mafioso:
«Omu vuol dire valore, coraggio, fermezza di propositi, ossequenza ai doveri dell’omertà… Base e sostegno dell’omertà è il silenzio; senza di questo non si potrebbe essere omu né mantenere la sua superiorità incontrastata… Se offeso non ricorre alla giustizia, non si rimette alla prova di debolezza, e offenderebbe l’omertà che ritiene “schifusu o infami” chi per aver ragione si richiama al magistrato»[2].
A tal proposito, anni dopo Leonardo Sciascia avrebbe commentato:
«Pitrè, rispetto al Traina, toglie al mafioso brutalità e prepotenza e le attribuisce agli altri, a quelli contro cui il mafioso si ribella; sicché la mafia altro non sarebbe che un sentimento di libertà, un atteggiamento di fierezza contro le angherie dei potenti e l’inettitudine della legge e dei pubblici poteri»[3].
Sia nell'interpretazione di Traina che in quella di Pitrè veniva negata quindi la mafia in quanto associazione criminale, ridotta a un atteggiamento "onorevole". L'interpretazione "benevola" dell'omertà da parte di Pitré era funzionale a questa sua concezione di mafia, per la quale:
«La mafia non è setta né associazione, non ha regolamenti né statuti. il mafioso non è un ladro, non è un malandrino; e se nella nuova fortuna toccata alla parola, la qualità di mafioso è stata applicata al ladro, ed al malandrino, ciò è perché il non sempre colto pubblico non ha avuto tempo di ragionare sul valore della parola, né s’è curato di sapere che nel modo di sentire del ladro e del malandrino il mafioso è soltanto un uomo coraggioso e valente, che non porta mosca sul naso, nel qual senso l’essere mafioso è necessario, anzi indispensabile. La mafia è la coscienza del proprio essere, l’esagerato concetto della forza individuale, unica e sola arbitra di ogni contrasto, di ogni urto d’interessi e d’idee; donde la insofferenza della superiorità e peggio ancora della prepotenza altrui. Il mafioso vuol essere rispettato e rispetta quasi sempre. Se è offeso non si rimette alla legge, alla giustizia, ma sa farsi personalmente ragione da sé, e quando non ne ha la forza, col mezzo di altri del medesimo sentire di lui»[4].
Pitrè sosteneva che la forza della mafia stava nella «umiltà» dei suoi membri, che erano completamente devoti alla causa della setta e non la tradivano per nessuna ragione.
L'origine napoletana del termine
Nonostante il tentativo di Pitrè di assegnare alla parola omertà un'origine siciliana, la parola era comparsa già nel 1842 nello Statuto della camorra: «La società dell’umirtà[5] o bella società riformata ha lo scopo di riunire tutti i compagni che hanno cuore, allo scopo di potersi, in circostanze speciali, aiutare sia moralmente che materialmente»[6].
Che la parola derivi dalla camorra, lo ricorda in un rapporto del 1874 il prefetto di Trapani Cotta Ramusino che parlava di omertà come riferimento a umiltà, parola gergale «in uso tra i camorristi per indicare i propri doveri di obbedienza, fedeltà, silenzio»[7]. Anche in un articolo di Enrico Onofrio su «Nuova Antologia» del 1877 veniva confermata «l’uso del termine “umiltà” tra i camorristi del carcere e i ricottari [protettori di prostitute] per indicare l’obbligo della persona ferita in un regolamento di conti di tacere l’autore del ferimento»[8].
L'uso radicato negli anni dell'interpretazione di Pitré
Tuttavia, l'interpretazione culturalista del fenomeno mafioso e dell'omertà da parte di Pitrè ebbe maggior successo, venendo usata anche dagli avvocati per difendere i propri assistiti durante il Maxiprocesso di Palermo; sempre in quegli anni anche Luciano Leggio, in un'intervista a Enzo Biagi, riprese la definizione di mafia di Pitrè, rivendicandola per se stesso.
La confusione tra l'organizzazione mafiosa siciliana con la sicilianità fu anche al centro delle varie campagne orchestrate dai politici mafiosi per urlare al complotto contro la Sicilia quando c'erano iniziative della magistratura che rompevano gli equilibri mafia-politica di quel tempo.
Note
- ↑ Sales, Isaia (2015). Storia dell'Italia mafiosa. Perché le mafie hanno avuto successo, Soveria Mannelli, Rubbettino, p. 237.
- ↑ Ibidem.
- ↑ Ibidem.
- ↑ Citato in Sciascia, Leonardo (1991). “La Storia della Mafia”, in Quaderni Radicali, n. 30 e 31 – Anno XV.
- ↑ La "L" di umiltà in napoletano si trasforma in erre
- ↑ Sales, op.cit., p. 239.
- ↑ Ivi, p. 241.
- ↑ Ibidem.
Bibliografia
- Sales, Isaia (2015). Storia dell'Italia mafiosa. Perché le mafie hanno avuto successo, Soveria Mannelli, Rubbettino.
- Sciascia, Leonardo (1991). “La Storia della Mafia”, in Quaderni Radicali, n. 30 e 31 – Anno XV.