Legge sullo Scioglimento dei Consigli comunali per mafia

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Legge scioglimento comuni per mafia

Lo scioglimento di un consiglio comunale o provinciale per infiltrazione mafiosa è una misura introdotta nell'ordinamento giudiziario italiano dall'art. 1 del decreto legge n. 164 del 31 maggio 1991, convertito nella legge n. 221 del 22 luglio 1991[1]. Fu varata in risposta all'ondata di indignazione suscitata nell'opinione pubblica dal barbaro omicidio del salumiere Giuseppe Grimaldi, decapitato da una scarica di pallettoni e la cui testa venne ripetutamente lanciata in aria dai killer nella piazza principale del paese, nell'ambito della faida di Taurianova.

La normativa prevede che il provvedimento di scioglimento possa essere preso se emergono concreti, univoci e rilevanti elementi su collegamenti diretti o indiretti con la criminalità di tipo mafioso o similare degli amministratori o se si registrano forme di condizionamento degli stessi, tali da determinare un'alterazione del procedimento di formazione della volontà degli organi elettivi ed amministrativi[2].

La verifica di tali condizioni è effettuata da una commissione d'accesso di nomina prefettizia che in 3 mesi prorogabili presenta il suo parere in una relazione al prefetto e al comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica, integrato dal procuratore della Repubblica. A quel punto, il prefetto invia un rapporto al ministero dell'Interno il quale, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, propone lo scioglimento al Presidente della Repubblica, che può procedere per decreto[3].

A seguito del decreto viene nominata una commissione straordinaria di 3 soggetti, tra funzionari dello Stato e magistrati. I poteri che esercita sono i medesimi del Consiglio Comunale, della Giunta e del Sindaco[4].

Storia e genesi della norma

Il rapporto tra la mafia e la politica

Il potere mafioso non potrebbe essere talmente radicato nella società, se non fosse così strettamente intrecciato con altre forme di potere, quali quello politico, economico e statale. Il rapporto tra mafia e politica, in particolare, è un rapporto centrale tramite il quale l'organizzazione mafiosa legittima se stessa sul territorio. Tale rapporto ha assunto forme diverse a seconda delle varie epoche, ma è una costante, anche da prima dell'Unità d'Italia.

In particolare dopo la Seconda Guerra Mondiale, vi è stata una trasformazione del rapporto tra mafia e politica, grazie alla quale il potere mafioso è passato da un ruolo "ancillare" a un rapporto paritario, strutturato e radicato[5].

La nascita della normativa sullo scioglimento dei comuni per infiltrazioni mafiosa

Le prime forme di legislazione antimafia si svilupparono in ambito penalistico, fermandosi tuttavia all'accertamento delle responsabilità penali individuali, anche se all'interno di un reato associativo come il 416 bis.

Con la riforma dell'ordinamento delle autonomie locali, varata con la legge n. 142 dell'8 giugno 1990, il legislatore introdusse, in maniera organica e incisiva, la possibilità di intervenire, oltre che nei confronti di singoli amministratori, anche nei confronti di intere Amministrazioni elettive[6].

L'articolo 39 della legge prevedeva, infatti, un intervento sostitutivo nei confronti di quegli Enti che “dovessero caratterizzarsi per gravi e persistenti violazioni di legge e/o per gravi motivi di ordine pubblico". Non vi era ancora alcun riferimento al fenomeno mafioso, ma quello all'illegalità diffusa e all'ordine pubblico prefigurava già la presa d'atto della problematica della corruzione e della devianza dell'Ente dai fini istituzionali.

Tuttavia, di fronte all'indignazione dell'opinione pubblica per i fatti di Taurianova, i consulenti giuridici del Ministero conclusero che l'art. 39 sarebbe stato di difficile applicazione. Il Ministro dell’interno Vincenzo Scotti decise dunque di sottoporre la questione al Consiglio dei Ministri. Si scelse così, in questa situazione di estrema necessità, di emanare una nuova norma ad hoc che configurasse lo scioglimento degli enti nei cui confronti fossero stati riscontrati fenomeni di infiltrazioni o condizionamento da parte della criminalità organizzata. È così che nacque il decreto legge 31 maggio 1991, n. 164, recante: “Misure urgenti per lo scioglimento dei consigli comunali e provinciali e degli organi di altri enti locali, di tipo mafioso”.

Il decreto legge, che introduceva l’articolo 15 bis alla legge antimafia n. 55 del 1990, prevedeva dunque un’ipotesi nuova di scioglimento rispetto a quelle disciplinate dalla legge sulle autonomie locali del 1990. In particolare, il decreto legge 164 disponeva che i consigli comunali e provinciali potevano essere sciolti quando, in seguito all’esercizio dei poteri conoscitivi e ispettivi del prefetto,

«fossero emersi elementi su collegamenti diretti o indiretti degli amministratori con la criminalità organizzata o forme di condizionamento degli amministratori tali da compromettere l’imparzialità e il buon andamento degli organi elettivi, il regolare funzionamento dei servizi, o fossero tali da arrecare pregiudizio per la sicurezza pubblica[7]».

Avvalendosi delle facoltà stabilite dal decreto legge, il prefetto di Reggio Calabria dispose la sospensione del consiglio comunale di Taurianova e altrettanto fece quello di Napoli eni confronti di quello di Casandrino; infine, i due comuni vennero sciolti con due decreti del Presidente della Repubblica, dopo il via libera del Consiglio dei Ministri[8].

La prima riforma: la legge 108/1994

Sulla base dell’esperienza maturata nei primi due anni di applicazione della nuova legge, emerse l’esigenza di apportare alcune modifiche e integrazioni allo scarno impianto normativo, al fine di renderlo maggiormente idoneo a fronteggiare il fenomeno delle infiltrazioni mafiose negli enti locali.

Venne varato quindi un nuovo decreto, il n. 420 del 19 ottobre 1993, reiterato reiterato nel decreto legge n. 529 del 20 dicembre, che fu infine convertito in legge l’11 febbraio 1994, nella legge n. 108.

La legge 108 introdusse la possibilità di prorogare la durata dello scioglimento, stabilita in un periodo compreso fra i dodici e i diciotto mesi, fino ad un massimo di ventiquattro mesi in casi eccezionali. In merito all’esigenza di assicurare il regolare funzionamento dei servizi pubblici, fu introdotta la possibilità per il prefetto di disporre, su richiesta della commissione straordinaria, l’assegnazione in via temporanea o il distacco di personale amministrativo e tecnico di amministrazioni ed enti pubblici, anche in posizione di sovra-ordinazione.

Presso il Ministero dell’Interno fu, inoltre, istituito il comitato di sostegno e monitoraggio dell’azione delle commissioni straordinarie e dei comuni riportati a gestione ordinaria. Infine, la legge 108 istituì un circuito preferenziale per l’accesso ai finanziamenti statali e regionali per la realizzazione di opere pubbliche e per far fronte alle disfunzioni dei servizi di competenza degli enti commissariati.

Allo scopo di garantire nel tempo il ripristino delle condizioni di funzionalità ditali enti, la legge 108 precisò che il circuito preferenziale per l’accesso ai finanziamenti permanesse anche per la durata del primo mandato elettivo conseguente alla cessazione del commissariamento straordinario[9].

La seconda riforma: il Pacchetto Sicurezza del 2009

Un'importante riforma arrivò con la legge n. 94 del 2009, soprannominata "Pacchetto Sicurezza". All'art. 2, comma 30, venne definita una disciplina più precisa dei presupposti, dei limiti e della procedura per l'adozione del provvedimento governativo di scioglimento, nonché l’ampliamento dell’ambito di applicazione dell’istituto sia dal punto di vista oggettivo, con riferimento in particolare alla previsione di ulteriori tipologie di organizzazioni criminali che possono integrare la fattispecie in esame, che soggettivo, in relazione all’estensione delle misure applicabili oltre che ai membri del consiglio, anche ai dirigenti e agli altri dipendenti pubblici. Tuttavia, anche questa riforma non riuscì a rispondere alle molteplici esigenze emerse dall'applicazione quotidiana dell'istituto[10].

La normativa

Cause di scioglimento ordinare e straordinarie

L’esercizio del potere di scioglimento dei comuni è subordinato dal legislatore al ricorrere di precisi presupposti che in precedenza venivano considerati, ai sensi dell’articolo 39, comma 1 della legge 142 del 1990, in riferimento allo scioglimento per “gravi motivi di ordine pubblico”. L’ingerenza delle organizzazioni mafiose nei comuni e nelle provincie, oltre a causare gravi disfunzioni amministrative, rappresentava anche un gravissimo pericolo per la sicurezza pubblica.

Oggi, l’art 143 del D. lgs n. 267/2000 subordina lo scioglimento del consiglio dell’ente locale alla presenza di

«concreti, univoci e rilevanti elementi su collegamenti diretti o indiretti con la criminalità organizzata di tipo mafioso o similare” da parte degli amministratori dell’ente, ovvero “su forme di condizionamento degli stessi amministratori».

Per collegamento “diretto” si intende un coinvolgimento attivo e partecipe dei consiglieri con la criminalità organizzata e si differenzia da quello “indiretto” che si sostanzia nelle ipotesi di connivenza degli amministratori con le predette organizzazioni. Il condizionamento, invece, rende rilevanti e sanzionabili anche le forme di ingerenza più nascoste della malavita organizzata, prendendo i casi in cui gli amministratori pur non appartenendo ad associazioni criminose sono di fatto costretti a subirne la volontà restandone così condizionati nella loro attività, in quanto incapaci di resistere alle loro pressioni.

Queste due situazioni devono però causare due conseguenze: l’una consiste nell’alterazione del procedimento di formazione della volontà degli organi elettivi ed amministrativi e la compromissione del buon andamento o dell’imparzialità e l’altra consiste nella capacità di arrecare “grave e perdurante pregiudizio per la pubblica sicurezza”.

Per giungere però allo scioglimento, l’art. 143 esige che ci sia stringente consequenzialità, motivata in modo logico ed esauriente, tra l’emersione di una delle due situazioni suddette e di una delle conseguenze tipizzate dalla norma.

La norma ha, dunque, un carattere preventivo: non tende solo a sanzionare specifiche responsabilità individuali dei consiglieri, ma è anche finalizzata a rimuovere le interferenze della criminalità organizzata nell’attività degli Enti locali, tutelando così l’ordinato svolgimento della vita amministrativa degli enti stessi.

L’applicabilità della normativa

In base all’ art. 146 del Testo Unico sugli Enti Locali la disciplina dello scioglimento dei consigli comunali e provinciali per infiltrazione e condizionamento di tipo mafioso o similare si applica anche ai consorzi di Comuni e province (da intendersi come tutti i consorzi di cui all’art. 31 T.U.E.L), agli organi comunque denominati delle aziende sanitarie locali ed ospedaliere, alle aziende speciali dei Comuni e delle Province e ai consigli circoscrizionali, nonché alle comunità montane, alle comunità isolane ed alle unioni di Comuni, in quanto compatibili con i relativi ordinamenti.

La novella introdotta dall’art. 2, comma 30, della legge n. 94/2009 nulla dispone in merito al campo di applicazione della disciplina dello scioglimento. La mancata modifica della norma lascia aperte due problematiche[11].

Innanzitutto, vi sono notevoli difficoltà e disparità applicative nel caso dell’estensione della disciplina dello scioglimento ex art. 143 agli organi delle aziende sanitarie locali o ospedaliere, questo perché le norme relative alla gestione straordinaria non si adattano al vestito privatistico di tali enti. La giurisprudenza amministrativa, ribadendo la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata in merito all’estensione di tale istituto alle aziende sanitarie locali, ha confermato che la logica ispiratrice del potere d’intervento del prefetto non è subordinata al carattere collegiale o elettivo dell’organo, ma è giustificata dalla impossibilità di rimuovere il pregiudizio al funzionamento delle amministrazioni locali attraverso misure penali o preventive a carattere penale: esigenza che si determina anche nei confronti delle aziende sanitarie locali.[12].

La seconda problematica concerne la mancata estensione della normativa anche agli organi delle società partecipate dagli enti locali. Al riguardo, l’art 146 del T.U.E.L. prevede soltanto che l’istituto si applichi anche alle aziende speciali, senza estendere espressamente l’ambito d’applicazione della normativa anche alle società partecipate dall’ente locale. Il fatto che il modello dell’azienda speciale sia ormai sostituito da quello delle società partecipate potrebbe legittimare un’interpretazione sistematica che estenda la normativa a tutti gli enti di diretta derivazione pubblica. Tuttavia tale interpretazione estensiva dell’art. 146 del T.U.E.L., potrebbe giustificare lo scioglimento degli organi delle c.d. società in house, che sono degli enti strumentali di Comune e Province esercitanti in proprio funzioni e servizi che spettano agli enti locali. Assume la qualità di ente “servitore” ed è quindi soggetto alle direttive, alla vigilanza e al controllo degli enti a cui è collegato[13].

Non sembra, invece, applicabile alle società miste ovvero alle società partecipate da più enti locali. La mancanza di uno strumento che consenta di intervenire direttamente sulle società a partecipazione pubblica locale anche quando non si riscontrano fenomeni di condizionamento nei confronti dell’ente locale, ma soltanto con riferimento all’attività di tali società, costituisce un arretramento dello Stato nella lotta alla criminalità organizzata[14].

Le modalità di scioglimento

Il provvedimento di scioglimento dei Consigli Comunali e Provinciali si sostanzia in un Decreto del Presidente della Repubblica adottato al termine di un complesso procedimento amministrativo. La procedura di scioglimento è diversa da quella prevista dall’articolo 39 della Legge 142 del 1990, oggi sostituito dall’art. 141 del T.U.E.L., in quanto prevede il decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Ministro dell’Interno solo previa deliberazione del Consiglio dei Ministri.

Il provvedimento deliberato dal Consiglio dei Ministri è trasmesso contestualmente alle Camere e al Presidente della Repubblica per la firma. Tale procedura è stata così rafforzata in ragione della gravità dei motivi che inducono allo scioglimento dell’organo e della tutela dell’imparzialità dei provvedimenti in modo da evitare un uso distorto o arbitrario della misura. Questo è uno strumento eccezionale di interferenza da parte dello Stato nell’autonomia degli Enti locali, la cui attivazione deve necessariamente seguire criteri di stretta legalità[15].

La nuova formulazione dell’articolo 143 del T.U.E.L, interamente sostituito dall’ art. 2 comma 30 della Legge 15 luglio 2009 n. 94, disciplina in modo più puntuale, rispetto alla normativa previgente, il procedimento di scioglimento dei consigli degli enti locali. La nuova disciplina ha recepito la prassi applicativa maturata nei vent’anni di applicazione, dando notevole risalto alle garanzie di trasparenza e pubblicità dell’attività amministrativa del prefetto e del Ministro dell’Interno, al fine di escludere che i procedimenti di scioglimento possano avere una durata eccessivamente lunga che comporti una notevole incertezza in merito all’effettiva sussistenza di infiltrazioni mafiose nell’ente locale che si ripercuotono sulla vita politico-amministrativa delle comunità locali[16].

L'attività inquirente del Prefetto

L’attività inquirente del prefetto si può distinguere in tre diverse fasi:

  1. l’acquisizione della “notitia criminis”;
  2. l’attività istruttoria;
  3. le valutazioni della stessa effettuate con una relazione al Ministro dell’Interno.

Quanto alla prima fase, la norma attuale non fornisce alcuna indicazione sulle possibili fonti di innesco dell’attività prefettizia. C’è una fase prodromica in cui il prefetto avvia una sorta di monitoraggio preventivo informale che può essere giustificato da notizie provenienti dalla stampa, da annotazioni di polizia o da atti ispettivi parlamentari, così da svolgere una prima verifica della sussistenza di anomalie. Il prefetto ha ampia discrezionalità sulla valutazione degli elementi sintomatici dell’infiltrazione criminale che possano portare ad un accesso presso l’ente. In tale prospettiva la norma non fa alcun riferimento all'attività di monitoraggio che costituisce, tuttavia, nella prassi applicativa un utile strumento anche di assistenza per comuni e province. Nonostante ciò, per il principio generale di legalità amministrativa, il prefetto deve dare conto di quali siano le ragioni che giustificano l’avvio della fase di accertamento con un atto motivato[17].

La seconda fase attiene all’accertamento dei presupposti attraverso un’attività di carattere istruttorio. Si procede con questa fase solo se la “notitia criminis” acquisita è tale da rendere evidente l’esistenza di un condizionamento mafioso, il prefetto può evitare di effettuare autonomi accertamenti e passare, quindi, direttamente alla fase successiva.

Nella maggioranza dei casi, invece, l’ufficio territoriale del Governo promuove l’accesso presso l’ente locale, come disciplinato dal secondo comma dell’art 143 del T.U.E.L., nominando una commissione d’indagine, composta da tre funzionari della pubblica amministrazione, la quale esercita i poteri ispettivi per delega del Ministro dell’Interno, ai sensi dell’art 2 comma 2-quater del d.l. n. 345/1991.

La richiesta di delega, dovrà brevemente riassumere la situazione ambientale del Comune presso cui è stato riscontrato un rischio concreto di infiltrazione e di condizionamento e contenere i riferimenti alle indagini di polizia o ai provvedimenti giudiziari che hanno interessato gli amministratori dell’Ente o i componenti dell’apparato burocratico. Dovrebbe inoltre dar conto delle principali criticità relative allo svolgimento dell’attività amministrativa e all’erogazione dei servizi dell’Ente locale.

Il Ministro dell’Interno, con proprio decreto, conferisce quindi al Prefetto i poteri di accesso e accertamento per soddisfare l’esigenza di massima trasparenza e per verificare la potenzialità di un condizionamento criminale dell’attività amministrativa dell’Ente.

Qualora il prefetto ritenga di non effettuare l'accesso presso l'ente locale, deve comunicarne nella propria relazione istruttoria le ragioni, specificando i motivi per i quali ha ritenuto sufficienti gli elementi già acquisiti in ordine alle infiltrazioni mafiose.

Qualora il Prefetto dia il via all’indagine amministrativa, si avvale di tre funzionari della Pubblica Amministrazione. La composizione della Commissione deve garantire la presenza di una pluralità di professionalità tali da consentire un’ampia indagine dei differenti settori che caratterizzano l’agire amministrativo di un Ente locale. Per prevenire un’eccessiva dilatazione dei tempi di accertamento, la riforma del 2009 ha espressamente stabilito un termine di tre mesi, rinnovabile per un periodo massimo di altri tre mesi, entro il quale la Commissione di accesso deve concludere l’attività d’indagine e rassegnare le proprie conclusioni al prefetto. La figura di riferimento, soprattutto per quanto riguarda gli aspetti logistici ed operativi che caratterizzanti questa prima fase, è il Segretario comunale o provinciale che garantisce una proficua collaborazione dell’apparato amministrativo per tutto ciò che necessita al lavoro della Commissione.

L’istruttoria del Prefetto deve concludersi entro 45 giorni dal deposito delle conclusioni della commissione d’indagine, inviando al Ministro dell’interno una relazione sullo stato dell’infiltrazione mafiosa all’interno dell’Ente locale interessato. La riforma del 2009 ha previsto che il prefetto debba obbligatoriamente sentire, nel corso del processo decisionale di sua competenza, il Comitato provinciale per l’Ordine e la Sicurezza pubblica dove deve partecipare il Procuratore della Repubblica competente per territorio. La sua presenza ha lo scopo di fornire al prefetto la migliore conoscenza possibile della realtà oggetto di indagine.

Il Prefetto ha il potere di sospendere gli organi dalla carica ricoperta e da ogni altro incarico ad essa connesso, con contestuale nomina di uno o più commissari che assicurino la provvisoria amministrazione dell’ente interessato. Tale potere è esercitato solo se vi sono motivi di urgente necessità. La durata del provvedimento di sospensione è limitata ad un periodo di sessanta giorni e, qualora esso venga adottato, gli effetti del successivo decreto di scioglimento, con particolare riferimento alla sua durata, decorrono dalla data dell’avvenuta sospensione.

La fase di valutazione degli esiti dell’attività istruttoria si chiude con una relazione del prefetto, anche nei casi in cui non si dovessero riscontrare forme di condizionamento dell’ente.

L'attività del Ministro dell'Interno

Alla fase istruttoria, segue un’ulteriore fase di competenza degli organi centrali che inizia nel momento in cui viene trasmessa la relazione del prefetto al Ministro dell’Interno. Quest’ultimo può avanzare, entro i tre mesi successivi, l’eventuale proposta di scioglimento al Consiglio dei ministri.

L’eventuale precedente indicazione da parte del Prefetto di procedere allo scioglimento non vincolerà il Ministro che potrà scegliere diversamente. Questo vale anche per la situazione opposta.

È dunque il Ministro dell’interno l’organo a cui spetta l’elaborazione della proposta conclusiva. Alla deliberazione consiliare farà seguito il decreto del Presidente della Repubblica di scioglimento del Consiglio in questione. Il decreto del Presidente della Repubblica deve essere immediatamente trasmesso alle Camere, al fine di consentire al Parlamento di effettuare un controllo in merito all'esercizio neutrale del potere di scioglimento. Il decreto deve indicare con chiarezza gli elementi posti a fondamento della decisione di sciogliere il consiglio dell'ente locale.

Gli effetti dello scioglimento

Il comma 4 dell’articolo 143 T.U.E.L. riporta testualmente:

«Lo scioglimento del consiglio comunale o provinciale comporta la cessazione dalla carica di consigliere, di sindaco, di presidente della Provincia, di componente delle rispettive giunte e di ogni altro incarico comunque connesso alle cariche ricoperte, anche se diversamente disposto dalle leggi vigenti in materia di ordinamento e funzionamento degli organi predetti».

Il legislatore ha dunque previsto che lo scioglimento del Consiglio del Comune infiltrato comporti una causa di delegittimazione dei suoi componenti così radicale da imporre che gli stessi, oltre a decadere dal mandato, cessino contestualmente da ogni altro incarico a loro attribuito.

Il comma 10 del medesimo articolo disciplina il periodo di efficacia del decreto di scioglimento, che può variare da 12 a 18 mesi ed è prorogabile fino a 24 mesi. Con la riforma del 2009, per contenere la durata dello scioglimento, il comma è stato modificato in riferimento alla data entro la quale può essere predisposta l'elezione. La nuova formulazione stabilisce che la durata della gestione commissariale dell'ente locale possa essere prorogata con provvedimento adottato non oltre il cinquantesimo giorno dalla scadenza dello scioglimento.

Voci Correlate

Note

  1. Amiranda, Andrea. (2018). Il rapporto tra lo scioglimento del Consiglio comunale per infiltrazione mafiosa e lo scioglimento per dimissioni, iusinitinere.it, 19 luglio.[1]
  2. Corte Costituzionale (1993). Sentenza n. 103, Roma, 19 marzo[2].
  3. Anghelone, Rosaria (2014). Lo scioglimento delle amministrazioni locali per infiltrazioni mafiose. Profili critici della normativa e prospettive di modifica, Tesi di Laurea - Università di Pisa, p. 122.
  4. Ibidem.
  5. Si veda sul tema, Nando dalla Chiesa, La Convergenza. Mafia e Politica nella Seconda Repubblica, Milano, Melampo Editore, 2010.
  6. Anghelone, op. cit, p. 22
  7. Ivi, p. 24.
  8. Ivi, p. 25.
  9. Ivi, p. 26.
  10. Per approfondire, si veda sempre Anghelone, pp. 28-30.
  11. Anghelone, op. cit., p. 122.
  12. Ivi, p. 113.
  13. Ivi. p. 114.
  14. Ivi. p. 115.
  15. Ivi. p. 55.
  16. Ivi. p. 118
  17. Ivi. p. 119.

Bibliografia

  • Amiranda, Andrea (2018). Il rapporto tra lo scioglimento del Consiglio comunale per infiltrazione mafiosa e lo scioglimento per dimissioni, iusinitinere.it, 19 luglio.
  • Cavaliere, Claudio (2004). Un vaso di coccio. Dai governi locali ai governi privati. Comuni sciolti per mafia e sistema politico istituzionale in Calabria, Soveria Mannelli, Rubettino.
  • Corte Costituzionale (1993). Sentenza n. 103, Roma, 19 marzo[3].
  • Anghelone, Rosaria (2014). Lo scioglimento delle amministrazioni locali per infiltrazioni mafiose. Profili critici della normativa e prospettive di modifica, Tesi di Laurea - Università di Pisa.