Michela Buscemi

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Michela Buscemi (Palermo, 18 settembre 1939), è un'attivista impegnata nella lotta alla mafia, nota per essersi costituita parte civile al Maxiprocesso di Palermo, dopo gli omicidi dei fratelli Salvatore e Rodolfo Buscemi da parte di Cosa nostra.

Michela Buscemi
Michela Buscemi

Biografia

Nata a Palermo, prima di dieci figli, Michela proveniva da una famiglia poverissima: la madre era una casalinga senza cultura e senza responsabilità, incapace di difendere se stessa e i propri figli dalle azioni violente del marito, mentre Il padre si barcamenava tra diversi lavori pur di sbarcare il lunario, svolgendo mestieri che variavano dal trasportatore di sabbia al muratore, fino a fare il minatore in Belgio e subito dopo il pescivendolo.

La difficile infanzia e adolescenza

La sua condizione di sorella maggiore l'aveva portata ad assumere un ruolo preponderante nell'accudimento dei fratelli e nello svolgimento delle faccende domestiche. Questo ruolo le aveva reso difficile già dalle scuole elementari frequentare la scuola come avrebbe voluto, tanto che i genitori talvolta la obbligavano a non andare a scuola. Riuscì tuttavia a completare le scuole elementari, cercando di aiutare economicamente i familiari con piccoli lavori.

Quando nel 1960 alla sua famiglia fu assegnata una casa popolare, la situazione migliorò molto. Michela riuscì a trovare anche un lavoro in una sartoria, contribuendo in misura maggiore all'economia familiare, oltre a rendersi indipendente economicamente. A un certo punto la famiglia si trasferì a Roma, ma non riuscirono a conquistare il benessere sperato e quindi tornarono a Palermo.

Una donna ribelle

La storia di donna ribelle di Michela iniziò proprio all’interno del contesto familiare. Sin dall'infanzia subì i tentativi di abusi del padre dai quali cercò sempre di difendersi. Un importante gesto di ribellione fu la scelta ostinata di andare a scuola, nonostante l'opposizione dei genitori che volevano si occupasse della casa e dei suoi fratelli. Michela raccontò così la sua ribellione:

«Io mi iscrivevo di nascosto, perché avevo una gran voglia di studiare. Ero la prima della classe. Certo, a dodici anni ero ancora in terza. Ogni volta cominciavo a frequentare, poi mia madre me lo vietava perché dovevo badare ai miei fratelli»[1].

La volontà di studiare fu un tratto distintivo di Michela, che le permise di non restare analfabeta come molte sue coetanee, vittime della società patriarcale siciliana dell'epoca, fortemente ostile all'emancipazione della donna.

Ancora giovanissima, Michela fu costretta dal padre a fidanzarsi con un uomo “banale e geloso[2] che non amava. Dopo un primo tentativo di ribellione da un fidanzamento forzato, Michela fu convinta dai propri genitori a sposare quell’uomo. Iniziarono i preparativi per le nozze, mentre Michela era sempre più infelice. A poche settimane dalla celebrazione del matrimonio, Michela fu sorpresa dal suo fidanzato che le chiese di fuggire.

Michela si oppose fermamente e scappò a casa, dove ebbe il primo incontro diretto con la mafia. Un noto mafioso e sua moglie si erano recati presso l’abitazione dei Buscemi per chiedere la mano della sorella di Michela per il proprio figlio. Una volta che il mafioso venne a conoscenza dell’accaduto, iniziò ad architettare dei piani di vendetta nei confronti del fidanzato di Michela. Ma Michela intervenne decisa, affermando che ognuno “si facesse i fatti propri" e che non aveva bisogno del loro aiuto[3].

Il padre rimproverò duramente la figlia per aver mancato di rispetto al mafioso e per aver cercato in tutti i modi di impedire che la sorella si sposasse contro la propria volontà.

L’ultima e necessaria forma di ribellione fu all’età di ventidue anni. A seguito dell’ennesimo tentativo di abuso da parte del padre, Michela decise di fuggire e abbandonare la casa familiare[4].

Il 9 febbraio 1963 Michela si unì in matrimonio con l’uomo che amava e con cui ebbe tre figli. Tuttavia non riuscì a liberarsi dallo stato di povertà, dato che i due non possedevano una casa e furono costretti a dipendere dai genitori del marito.

In quel periodo Michela si macchiò anche di un precedente penale. Infatti venne a sapere che nel quartiere di Borgo Nuovo c’erano delle case libere che la gente occupava. Una mattina decise anche lei di occupare un’abitazione e per questo venne denunciata. Grazie all’amnistia, uscì dal carcere poco tempo dopo [5].

Parte civile al Maxiprocesso

L'Aula Bunker durante il Maxiprocesso di Palermo
L'Aula Bunker durante il Maxiprocesso di Palermo

La vita di Michela cambiò completamente quando decise di costituirsi parte civile al Maxiprocesso di Palermo dopo gli omicidi dei fratelli Salvatore e Rodolfo. Infatti suo fratello Salvatore era un contrabbandiere che aveva fama di essere litigioso, ma svolgeva questa attività senza armi. Nel 1976 venne assassinato, probabilmente a seguito di uno scontro con boss mafiosi e gregari del quartiere. Qualche anno dopo, fu vittima di un omicidio anche il fratello Rodolfo, il quale non si era mai dato pace per la morte del fratello e si era messo sulle tracce dei responsabili. Presumibilmente, rimase implicato in piccole attività criminali non tollerate da Cosa Nostra. Quindi, venne brutalmente assassinato insieme al cognato nel maggio del 1982[6].

Considerate le attività del padre e dei fratelli di Michela e il ruolo della madre, si può dire che la sua famiglia non era mafiosa. Era semplicemente costretta a sopravvivere nel contesto degradato di Palermo. [7].

Ciò che condizionò fortemente la scelta di collaborare con la giustizia fu lo stato di estrema povertà in cui si trovava, dato che non avrebbe potuto permettersi di pagare l’assistenza. Disse all’avvocato che l’avrebbe assistita: “Se c’è di uscire una lira, noi non ce l’abbiamo”. Una volta che l’avvocato la rassicurò, Michela non indugiò ulteriormente[8].

Al processo, a differenza di altri familiari, Michela riportò tutto quello che sapeva, tralasciando ciò che non poteva provare, sui suoi fratelli. In primo grado i mafiosi, come è noto, vennero condannati. In appello, però, le minacce si fecero più dirette.

Le minacce di morte e la scelta di ritirarsi come parte civile

Il 18 settembre 1988 Michela ricevette una telefonata da una sorella che aveva il marito detenuto al carcere dell'Ucciardone[9], che la informò di essere stata fermata fuori dal carcere da un uomo e una donna appoggiati alla sua auto, che le avevano chiesto se fosse la sorella di Michela Buscemi, raccomandandole di dirle di ritirarsi al processo perché «è bello uscire la domenica a fare una passeggiata con i figli…». Tuttavia, Michela andò avanti.

Una sera, alle undici, ricevette una telefonata da un tale che le intimava di ritirarsi parte civile, viceversa avrebbe avuto un morto in famiglia prima di Pasqua. Alle prime richieste di spiegazione, l’interlocutore aggiunse una frase che non lasciava dubbi: «non creda che suo figlio sia in salvo perché è partito»[10]. Michela capì quindi di essere sorvegliata e che i mafiosi sapevano che suo figlio, maresciallo di Marina, era tornato a casa in licenza e ripartito. A quel punto il marito e le figlie le chiesero di ritirarsi parte civile. Dopo essersi consultata con gli amici del Centro Impastato e dell'Associazione Donne contro la mafia, fondata da Giovanna Terranova, moglie di Cesare, Michela decise di ritirarsi e dargliela vinta.

Tuttavia, non lo fece senza denunciare pubblicamente in aula quello che le era accaduto. Vedendosi poi rimproverata anche dal pubblico ministero, nonostante la sua intera vita di sacrificio. Lei si vergognò tantissimo. «Mi sembrava di avere ucciso io i miei fratelli», raccontò, «volevo nascondermi, scomparire». Non sarebbe stata l’ultima umiliazione. Un giorno, avendo visto un servizio sulla sua vicenda in televisione, telefonò a casa il fidanzato di sua figlia, che le comunicò che l'avrebbe lasciata: «Mi vergogno di voi. Siete una famiglia mafiosa»[11].

La vita dopo la testimonianza

Oggi Michela vive in campagna con il marito, dove si è trasferita nel 1995. Nel 1990 dovettero chiudere il bar di famiglia, poiché nel quartiere li chiamavano gli "spiuni". Oggi continua a portare avanti la sua testimonianza di donna ribelle ovunque la chiamino. Fa parte della rete dei familiari delle vittime innocenti di Libera.

Michela e la sua scelta, negli studi antimafia

Michela rientra nella categoria di donne che hanno dato il via alla testimonianza pubblica attraverso un netto rifiuto del sistema mafioso a seguito della perdita di un familiare. Nel modello emancipativo, l’aspirazione vendicativa non trova spazio nella scelta di collaborare[12]. Al contrario, parlare può inizialmente servire come elaborazione del lutto. Poi, con il tempo, l’esperienza della collaborazione si concretizza in un’effettiva liberazione dalle costruzioni passate. Intesa in questi termine, la collaborazione si pone come il tentativo di crearsi una nuova alternativa di vita. Quindi, può rappresentare uno dei possibili percorsi di emancipazione femminile dai condizionamenti dell’oppressione mafiosa.

Infatti, questa strada è percorsa più facilmente da donne non provenienti da una famiglia mafiosa, come Michela. Il lutto costituisce uno dei motivi della scelta di collaborare, ma non è il solo. Nella storia di Michela è vivo anche il desiderio di allontanarsi dall’ambiente povero e degradato in cui ha vissuto, dovuto anche alle violenze subite: i tentati abusi del padre e le percosse per la volontà di studiare. Michela si mosse anche per il desiderio di liberarsi dalle oppressioni familiari di cui è stata vittima.

La rivolta di Michela offrì un contributo fondamentale al movimento antimafia che si stava sviluppando. In quegli anni, le vittime di mafia iniziarono ad assumere più rilevanza, tant’è che gli avvocati del Nord Italia si offrirono per assistere gratuitamente le parti civili dei processi di mafia. Michela ottenne l’assicurazione da parte di un avvocato che la incoraggiò a testimoniare.

Note

  1. Michela Buscemi, Nonostante la paura, Bari, Edizioni La Meridiana, 2010, p. 27.
  2. ivi, p. 50.
  3. Ivi, p. 59.
  4. Ivi, pp. 61-62
  5. Nando dalla Chiesa, Le ribelli. Storie di donne che hanno sfidato la mafia per amore, Milano, Melampo Editore, 2018
  6. Anna Puglisi, Sole contro la mafia, Palermo, La Luna, 1990.
  7. Nando dalla Chiesa, Le ribelli. Storie di donne che hanno sfidato la mafia per amore, Milano, Melampo Editore, 2006, p. 95.
  8. Ivi, p. 87.
  9. Ivi, p. 100.
  10. Ivi, p. 101.
  11. Ivi, p. 102.
  12. Ombretta Ingrascì, Donne d’onore. Storie di mafia al femminile, Torino, Bruno Mondadori, 2007, p. 152.

Bibliografia

  • Buscemi, Michela (2010). Nonostante la paura, Bari, Edizioni La Meridiana.
  • Dalla Chiesa, Nando (2006). Le ribelli. Storie di donne che hanno sfidato la mafia per amore, Milano, Melampo Editore.
  • Ingrascì, Ombretta (2007). Donne d’onore. Storie di mafia al femminile, Torino, Bruno Mondadori.
  • Puglisi, Anna (1990). Sole contro la mafia, Palermo, La Luna.