Umberto Mormile: differenze tra le versioni

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Umberto Mormile (N.D., 15 settembre 1953 – Carpiano, 11 aprile 1990) è stato un educatore italiano, vittima innocente della 'ndrangheta.

Biografia

Mormile nel 1976, alla soglia della laurea, decise di interrompere gli studi in Giurisprudenza e diventare poliziotto penitenziario nel Carcere di Civitavecchia. Dopo due anni divenne educatore carcerario, uno dei primi dopo la riforma dell'ordinamento penitenziario del 1975 con la legge 354/1975. Mormile si distinse subito per un approccio innovativo al tema della rieducazione del condannato, traducendo l'applicazione della riforma carceraria in progetti culturali ed educativi di uno spessore tale da essere esportati in altre carceri come "buone prassi", tanto che si cominciò a parlare di metodo Mormile.

Negli anni in cui lavorò al carcere di Parma, dopo essersi separato con la moglie da cui aveva avuto una figlia, Daniela, Mormile iniziò una relazione con l'allora vice-direttrice dell'istituto penitenziario, Armida Miserere.

Il trasferimento ad Opera

Nel 1987 Mormile accettò il trasferimento da Parma al nuovo carcere di Opera, dove lavorò fino al giorno del suo omicidio. Lì, come hanno confermato diversi collaboratori di giustizia negli ultimi anni, venne a conoscenza degli incontri non autorizzati tra uomini dei servizi segreti e boss della 'ndrangheta, reclusi nel carcere di massima sicurezza, in particolare Domenico Papalia.

L'omicidio

L'11 aprile 1990 Mormile venne assassinato in un agguato lungo la provinciale Binasco-Melegano, nei pressi di Carpiano, mentre andava a lavoro. Due uomini su una Honda 600 che affiancò la sua Alfa Romeo 33 spararono sei colpi di 38 special. I due colpi dietro l'orecchio sinistro, a mezzo centimetro l'uno dall'altro messi in evidenza dall'autopsia eseguita il giorno dopo furono da subito la conferma che si trattava di killer professionisti[1]. L’omicidio venne rivendicato all'ANSA di Bologna dalla fantomatica organizzazione Falange Armata.

Indagini, depistaggi e processi

Le indagini per l'omicidio di Umberto Mormile furono segnate da pesanti depistaggi. Antonio Schettini, braccio destro del boss della 'ndrangheta Franco Coco Trovato, cognato di Paolo De Stefano, dopo essere stato arrestato nell'ambito dell'operazione Wall Street decise di collaborare con la giustizia e si auto-accusò anche dell'omicidio di Mormile, per il quale venne condannato in via definitiva insieme ad Antonino Cuzzola, che guidava la Honda 600, e i boss Antonio e Domenico Papalia.

Tuttavia, Schettini riferì falsamente che Mormile era stato ucciso perché aveva rifiutato una relazione favorevole al boss di Platì, in cambio di 20 milioni di lire, e questo era stato giudicato inammissibile, in quanto a libro paga dell'organizzazione[2].

Il processo 'ndrangheta stragista

In realtà, alle udienze del processo 'ndrangheta stragista è emersa un'altra verità, confermata da quattro collaboratori di giustizia differenti, Vittorio Foschini, Salvatore Pace, Antonino Fiume e Antonino Cuzzola.

In particolare Foschini, referente di Coco Trovato nel milanese, ha riferito che Mormile è stato ucciso per aver scoperto i rapporti tra i fratelli Papalia con i servizi segreti, avendo notato i loro frequenti incontri in carcere non registrati e i relativi benefici che la 'ndrangheta e non solo ne stava ricavando.

Ha raccontato Foschini: «Quando Papalia era detenuto a Parma noi facevamo quello che volevamo. Non solo usciva per i permessi premio. Entravamo pure noi in carcere. Io sono entrato nella cella di Emilio Di Giovine, che all’epoca era nostro nemico, per dirgli che doveva lasciarci le sue zone. Nella cella c’era lui in vestaglia, insieme a suo zio, che non era detenuto. E sono entrato io. E io mi chiamo Foschini, con la famiglia Di Giovine non c’entro niente»[3].

Ad Opera, invece, la musica era cambiata: «Mormile aveva capito che Papalia non era cambiato, aveva ancora a che fare con noi, aveva fatto una serie di relazioni negative al tribunale di sorveglianza, che per questo aveva bloccato i permessi»[4]. Un problema per il boss, che secondo quanto raccontato dal pentito, nonostante la detenzione, rimaneva il vertice assoluto del clan ed elemento del gotha della 'ndrangheta reggina tutta, attiva, coesa e dall'agire coordinato e concertato tanto a Reggio Calabria e nella sua provincia come a Milano e in tutta la Lombardia. Con i permessi bloccati, il meccanismo di trasmissione e scambio di informazioni e ordini si inceppava.

Quando Mormile rifiutò a Domenico Papalia il favore di una relazione addomesticata, questo chiese al fratello Antonio di avvicinarlo fuori dal carcere, proponendogli una tangente da 20 milioni. Lui rifiutò nuovamente, facendo l'allusione che secondo Foschini gli costò la vita: "Io non sono dei servizi".

Fu a quel punto che Antonio Papalia diede l'ordine di ucciderlo. Continuò Foschini: «Secondo il racconto fatto a me da Antonio Papalia, lo stesso Domenico Papalia precisò anche che bisognava parlare con chi di dovere e cioè con i servizi, vista l'allusione che era stata fatta e visto che non si doveva sospettare di loro (cioè dei Papalia)»[5].

A quel punto si decise di rivendicare l'omicidio come Falange Armata, la stessa sigla poi usata per firmare l'omicidio dei carabinieri a Reggio Calabria, gli attentati di via Palestro, via dei Geogofili e molti altri. Dopo la morte di Mormile, gli uomini dei Servizi si preoccuparono di far andare al suo posto una persona più "malleabile".

Note

  1. cit., Colaprico, Quell'omicidio è nato dietro le sbarre, la Repubblica, 13 aprile 1990
  2. Alessia Candito, Omicidio Mormile, un delitto senza giustizia da trent'anni, LaCNews24.it, 11 aprile 2020.
  3. Ibidem
  4. Ibidem
  5. Ibidem

Bibliografia

  • Archivio Antimafia Duemila
  • Candito Alessia, Omicidio Mormile, un delitto senza giustizia da trent'anni, LaCNews24.it, 11 aprile 2020.
  • Colaprico Piero, Quell'omicidio è nato dietro le sbarre, la Repubblica, 13 aprile 1990