Articolo 41 bis
L’articolo 41 bis della legge sull’ordinamento penitenziario prevede la sospensione delle ordinarie regole di trattamento dei detenuti ed è generalmente conosciuto come 'carcere duro' per mafiosi. In particolare, il regime più restrittivo di cui al secondo comma dello stesso è stato introdotto nel 1992 a ridosso delle stragi di Capaci e di via D’Amelio in cui rimasero vittime i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e gli agenti della loro scorta.
Storia
Le origini: l’art. 90 O.P.
Prima dell’entrata in vigore dell’art. 41 bis l’ordinamento penitenziario, che aveva preferito tradurre nella legislazione ordinaria i principi contenuti nella Costituzione e quelli risultanti dagli impegni assunti in sede internazionale piuttosto che occuparsi della sicurezza penitenziaria, si era dotato di una norma di salvaguardia cui ricorrere in presenza di situazioni di emergenza. Tale norma era l’art. 90 O.P. L’idea dalla quale era originata l’introduzione di tale norma era rappresentata dalla preoccupazione derivante dal forte nervosismo e dai contrasti che si registravano all’interno delle carceri italiane tra i detenuti in modo tale da sottrarre agli effetti della riforma del 1975 coloro i quali risultavano promotori di disordini e sommosse o che, a causa della loro intrinseca capacità a delinquere, rappresentavano un pericolo per l’ordine e la sicurezza degli istituti di pena. L’art. 90 O.P. costituisce, dunque, il primo tentativo di sospensione del regime ordinario di trattamento per queste tipologie di detenuti, legati principalmente alle associazioni criminali di tipo mafioso, terroristiche od eversive.
Nelle intenzioni del legislatore la norma doveva consentire, in presenza di situazioni di particolare gravità interna alle strutture penitenziaria, che le esigenze di sicurezza prevalessero sulle esigenze rieducative e risocializzanti cui la legislazione penitenziaria è ispirata. L’introduzione della norma, dunque, comportò la possibilità di attuare restrizioni nei confronti di quei soggetti ritenuti più pericolosi, in quanto colpevoli della commissione dei reati più gravi, in modo tale che non gli fosse permesso di porre in essere comportamenti violenti o criminosi nei confronti di altri detenuti. In questa prospettiva vennero, dunque, prima selezionate e poi utilizzate carceri o sezioni delle stessi adatte ad accogliere detenuti di questo tipo che, a causa di una serie di indizi costituenti indici obiettivi di pericolosità, erano considerati un rischio costante per la sicurezza interna ed esterna alla struttura carceraria.
La selezione degli istituti di peni o delle sezioni all’interno di essi venne predisposta tramite decreto ministeriale, il quale attribuiva ad un ufficiale generale dei Carabinieri il coordinamento dei servizi di sicurezza esterna degli istituti indicati con provvedimento del Ministro di Grazia e Giustizia di concerto con il Ministro dell’Interno. La sicurezza interna era invece garantita attraverso la particolare concessione al generale di fare visita agli istituti di pena in modo tale da poter indicare al Ministro proposte o richieste volte ad assicurare l’adozione di misure che meglio garantissero la sicurezza.
L’art. 90 O.P. conferiva al Ministro di Grazia e Giustizia il potere di sospendere in uno o più stabilimenti e per il tempo strettamente necessario alcune regole di trattamento previste nella legge penitenziaria che potessero porsi in contrasto con le esigenze di ordine e sicurezza, qualora ricorressero gravi ed eccezionali motivi che giustificassero tali restrizioni. La procedura prevista dall’articolo citato attribuiva, inoltre, di volta in volta, al Ministro medesimo la responsabilità politica di verificare la sussistenza dei presupposti della gravità e della eccezionalità dei motivi legittimanti il provvedimento di sospensione delle ordinarie regole di trattamento, nonché la facoltà di determinare la durata della sospensione stessa. Allo stesso Ministro, poi, veniva attribuita la facoltà, qualora se ne fosse presentata l’opportunità, di selezionare con proprio provvedimento, e con valutazioni del tutto discrezionali, alcuni istituti o sezioni di essi ritenuti più idonei onde assegnarvi i detenuti più pericolosi.
La norma consentì, di fatto, fino al termine del periodo di emergenza, non soltanto di arrestare il fenomeno delle evasioni, ma anche di ristabilire la tranquillità interna. Questi risultati vennero, tuttavia, raggiunti introducendo importanti limitazioni e deroghe al trattamento penitenziario. Tra le limitazioni introdotte dai vari provvedimenti normativi che seguirono in rapida successione, vanno ricordati il divieto di partecipazione alle rappresentanze dei detenuti preposte al controllo del vitto o della biblioteca ed il divieto di organizzare attività culturali, ricreative e sportive. Ancora, a quei detenuti non erano consentiti colloqui più lunghi di un’ora, di conversare con i familiari ed i parenti in visita se non separati da una lastra di vetro, di fare telefonate o corrispondere con altri detenuti. Inoltre, tutta la corrispondenza in arrivo ed in partenza doveva prima ricevere il visto di controllo del direttore. Venne, poi, ridotto il numero di ore di permanenza all’aperto di cui i detenuti potevano godere. Limitazioni più strette vennero introdotte all’interno delle carceri di massima sicurezza in cui, il regime di vita di cui sopra, si accompagnava ad una vigilanza ancora più intensi.1 L’art. 90 O.P. si caratterizzava per il fatto di essere una disposizione eccezionale utilizzabile quando gli ordinari strumenti di controllo risultavano inefficaci o inadeguati a fronteggiare le situazioni di gravità ed eccezionalità, in cui si fossero trovati gli istituti penitenziari. Tuttavia tale carattere eccezionale si coniugava male con una sufficiente tassatività della previsione che appariva, invece, indeterminata soprattutto per ciò che concerneva l’indicazione delle regole di trattamento e degli istituti suscettibili di essere sospesi.
Per i detenuti condannati per reati riconducibili alla criminalità organizzata l’art. 90 O.P. aveva funzionato e, di fatto, aveva contributo a far cessare le evasioni, i disordini e le sommosse. Il problema principale era rappresentato dal fatto che, da strumento eccezionale da utilizzare per placare i disordini e le sommosse, la norma era divenuta mezzo preventivo ordinario da utilizzare in risposta alle ordinarie esigenze di sicurezza e di ordine dell’istituto.
L’introduzione dell’art. 41 bis all’interno della legge 354/1975 e la c.d. legge Gozzini
L’art. 41 bis O.P. è stato introdotto dalla legge 663/1986 ( c.d. legge Gozzini) che operò una vera e propria riforma all’interno dell’ordinamento penitenziario dettata, soprattutto, dai limiti e dalle incongruenze cui aveva dato vita l’applicazione dell’art. 90 O.P.
La legge Gozzini si preoccupava di risolvere due piaghe che affliggevano il sistema carcerario italiano attraverso una serie di interventi che migliorassero non solo la congruenza dell’esecuzione della pena con i principi affermati in Costituzione, ma che incentivassero i contatti con il mondo esterno in modo tale da favorire la rieducazione e la risocializzazione del detenuto. Uno degli aspetti più rilevanti di cui la legge in questione si è occupata è rappresentato dall’abrogazione dell’art. 90 O.P. e dalla introduzione, in modo stabile, all’interno dell’Ordinamento Penitenziario di una norma (art. 41 bis O.P.) che disciplinasse le situazioni di emergenza prima rientranti nell’alveo dell’abrogata norma.
L’art. 41 bis O.P., così come enucleato dalla legge Gozzini, non innovò in modo significativo la disposizione abrogata di cui all’art. 90 O.P., ma mirava più che altro a chiarire in maniera più puntuale i presupposti necessari e legittimanti il potere di sospensione delle normali regole di trattamento del Ministro di Giustizia. In particolare, all’interno della norma, si fa riferimento a “casi eccezionali di rivolta o ad altre gravi situazioni di emergenza” al fine di sottolineare l’imprevedibilità e l’eccezionalità di tali situazioni, circoscrivendo solo ad esse l’operatività della norma.1 L’art. 90 O.P., invece, parlava genericamente di “gravi ed eccezionali motivi di ordine e sicurezza” attribuendo in questo modo all’amministrazione penitenziaria un margine più ampio di discrezionalità nell’applicazione dell’istituto.
Ulteriore aspetto di differenziazione tra le due norme è, inoltre, rappresentato dalla diversa collocazione sistematica delle due all’interno della legge sull’ordinamento penitenziario. L’art 90 O.P. appariva, infatti, come una norma di chiusura dal momento che era stato collocato tra le disposizioni finali e transitorie della legge. Al contrario, la collocazione dell’art. 41 bis O.P. all’interno del corpo della normativa faceva sì che esso assumesse il ruolo di sanzione di comportamenti collettivi non altrimenti neutralizzabili.
Limiti dell’art. 41 bis nella sua prima formulazione
L’art. 41 bis O.P., prevedendo il potere per il Ministro di Grazia e Giustizia di sospendere l’applicazione delle normali regole di trattamento penitenziario nei casi di rivolta e di altre gravi situazioni di emergenza interne all’istituto, aveva come unico scopo quello di porre rimedio unicamente a stati transitori di crisi di origine ambientale, in quanto tali non legati a particolari comportamenti o categorie di soggetti detenuti. Entrambe le fattispecie introdotte dalla legge del 1986 (artt. 14 bis e 41 bis O.P.), infatti, venivano attivate soltanto se si verificavano avvenimenti tali da mettere in discussione la sicurezza all’interno del carcere. Per tali ragioni la norma risultava produrre scarsi effetti pratici.
Il punto maggiormente criticato della nuova disposizione introdotta dalla legge Gozzini era rappresentato dai benefici che potevano essere concessi ai detenuti sottoposti alla sua applicazione. Infatti i benefici concessi erano ritenuti eccessivamente premiali e permissivi determinando un allentamento sul piano della prevenzione generale in favore della prevenzione speciale. Inoltre, i criteri adottati nella concessione degli stessi benefici risultavano indeterminati a causa della forte discrezionalità di cui godeva la magistratura di sorveglianza.
Di tali aspetti problematici si rese conto anche il legislatore del 1991 il cui intervento, però, si limitò a prevedere un irrigidimento delle condizioni di uscita dal carcere per i soggetti ritenuti, anche solo preventivamente, appartenere alla criminalità organizzata.
La legge 356/1992 e l’introduzione del comma 2 all’art. 41 bis O.P.
La legge 356/1992 fu emanata subito dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio nelle quali furono assassinati i giudici Falcone, Morvillo e Borsellino e gli agenti della scorta. A seguito della recrudescenza raggiunta dal fenomeno mafioso in quel periodo da più parti si premeva per un intervento decisivo da parte dello Stato.
L’introduzione del regime speciale, ad opera dell’art. 19 del decreto 306/1992, avvenne in via provvisoria e non ebbe applicazione immediata. Si dubitava perfino della conversione in legge del medesimo decreto. Solo a partire dal 20 luglio 1992, all’indomani della rinnovata emergenza che seguì la strage di via D’Amelio, con la conversione del decreto nella legge 356, venne attuato il secondo comma dell’art. 41 bis O.P. L’istituto previsto dalla norma in esame è stato vigente per decenni in regime di provvisorietà, sino alla emanazione della legge 279/2002 che ne ha disciplinato definitivamente il contenuto apportando talune modifiche per superare i problemi sollevati dalla formulazione originaria. Tale regime consiste nella sospensione, in tutto o in parte, delle normali regole di trattamento o degli istituti previsti dall’ordinamento penitenziario. Le regole di trattamento si riferiscono tanto alla vita interna al carcere dei detenuti, quanto ai contatti che questi continuino a mantenere con l’esterno. L’intenzione del legislatore era non solo quella di affrontare una grave situazione di emergenza, ma anche quella di far cessare una “palese posizione di privilegio e di supremazia" di alcuni detenuti “eccellenti” nei confronti di altri detenuti e, talvolta, anche nei confronti degli stessi controllori penitenziari.