Criminalità ambientale: differenze tra le versioni

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* Varese, Federico (2011). ''Mafie in movimento. Come il crimine organizzato conquista nuovi territori'', Torino, Einaudi.
* Varese, Federico (2011). ''Mafie in movimento. Come il crimine organizzato conquista nuovi territori'', Torino, Einaudi.
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Criminalità ambientale è un'espressione con la quale si indicano tutte quelle organizzazioni criminali dedite al crimine ambientale, definito come «un’azione che può o meno violare norme esistenti e la legislazione ambientale; ha quale effetto un danno ambientale identificabile; ed è riconducibile all’azione dell’uomo»[1]. Si è imposto in ambito accademico rispetto al più famoso a livello mediatico Ecomafie.

criminalità ambientale

Il termine Ecomafie

Il termine «Ecomafie» si riferisce ad un neologismo coniato da Legambiente nel 1994 per indicare quelle particolari attività di interesse delle organizzazioni criminali tradizionali, tra cui lo smaltimento illecito dei rifiuti, l’abusivismo edilizio e le connesse attività di escavazione[2]. In particolare, il concetto di “ecomafia” ottiene una rilevante eco mediatica a seguito di un documento redatto dalla stessa associazione ambientalista, intitolato, appunto, “Le Ecomafie - il ruolo della criminalità organizzata nell’illegalità ambientale”. Tale documento vede il coinvolgimento dell'Arma dei Carabinieri e dell’istituto no-profit Eurispes. Dal 1997, l’associazione cura il Rapporto annuale “Ecomafie - Le storie ed i numeri della criminalità ambientale in Italia”.

Da Ecomafie a Criminalità ambientale

In Italia, negli ultimi anni, seguendo l’impronta della letteratura scientifica internazionale, si è iniziato a adottare consensualmente il termine “criminalità ambientale”. Come ricorda il prof. Lorenzo Natali, occuparsi oggi di criminalità ambientale implica un confronto necessario «con alcune questioni estremamente complesse: la definizione del crimine; le molteplici dimensioni che danno vita alle sue differenti espressioni; le politiche sociali e penali più idonee a prevenirlo e a reprimerlo»[3].

La denominazione ecomafiosa del suddetto fenomeno criminale descrive, infatti, solo una parte di una realtà che è sociologicamente e giuridicamente più complessa ed estesa. Il contesto storico-politico non è stato indifferente rispetto alla creazione del neologismo “ecomafia”. Agli occhi del sistema-paese si palesava un ossimoro evidente: l’emergenza strutturale della gestione dei rifiuti in Campania. Infatti, “l’emergenza rifiuti” campana inizia formalmente nel febbraio del 1994, quando con l’emanazione del provvedimento da parte dell’allora Presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi si istituisce il “Commissariato straordinario per l’emergenza rifiuti”.

Le ragioni che conducono il governo nazionale ad istituire il commissariato straordinario sono la gestione disastrosa delle discariche attive[4], l’assenza di un piano regionale per lo smaltimento dei rifiuti urbani e la pervasività delle organizzazioni criminali ambientali (mafiose e non) nei settori chiave del ciclo dei rifiuti. Tenendo conto di ciò, negli ultimi 30 anni, quando si è trattato di criminalità ambientale in Italia, ci si è spesso soffermati a lungo sul ruolo occupato dalle organizzazioni tradizionali di stampo mafioso, oscurando la «pluralità sempre più ampia di soggetti coinvolti», e la conseguente necessità quindi di «concentrarsi sulla dimensione organizzata e organizzativa dell’illecito, sia intesa come pratica sistemica e prolungata, sia guardando alla morfologia organizzativa del gruppo criminale»[5], a prescindere dal coinvolgimento o meno delle organizzazioni mafiose.

Trattando di criminalità ambientale, si deve assolutamente considerare la dimensione organizzativa dell’illecito ambientale, non come una condotta deviante sporadica e singolare, ma come espressione di un insieme sistematico di illeciti ben inseriti all’interno del sistema produttivo ed economico del nostro modello di sviluppo.

Dal Nord al Sud Italia, la nostra storia nazionale è foriera di casi di criminalità ambientale che hanno inciso profondamente sulla vita delle comunità locali coinvolte. Dal «disastro del Vajont» alla strage silente dell’azienda multinazionale Eternit (tra le quali la più nota è senz’altro la tragica esperienza di Casale Monferrato), dall’«incidente annunciato» di Seveso al “caso Caffaro” della città di Brescia. E ancora si potrebbero citare i disastri petrolchimici di Cengio, Porto Marghera, Massa Carrara, Ravenna, Ferrara, Porto Torres, la zona industriale attorno alla valle del Sacco, Taranto, Brindisi, Priolo e Gela[6].

Oltre ai casi che potremmo definire senz’altro di rilevanza storica, vi è la necessità di fare i conti anche con una certa illegalità diffusa che colpisce il nostro territorio nazionale. Uno strumento di conoscenza utile a restituirci una panoramica statistico-descrittiva aggiornata e attuale delle violazioni ambientali in Italia è la collana editoriale di Legambiente. Stando a quanto riportato dal rapporto Legambiente 2023, si può affermare che è confermato il (desolante) trend degli ultimi anni con la cifra di 30.000 reati consumati contro l'ambiente e la salute dei cittadini, che coinvolgono in misura maggiore sei delle regioni italiane, ovvero, in ordine decrescente, Campania, Puglia, Sicilia, Calabria, Lazio e Lombardia[7].

Lo smaltimento illecito dei rifiuti

Lo smaltimento illecito dei rifiuti è una condotta illecita che si fonda su un assunto importante: il sistema strutturale-legale della gestione dei rifiuti urbani e speciali è permeabile al condizionamento dell’interesse criminale. Tra le numerose ragioni, va innanzitutto segnalato il quantitativo dei rifiuti stessi.

Come segnalato dai Rapporti Ispra 2021 e 2020[8], la produzione annuale italiana di rifiuti urbani è stabile sulla cifra di 30 milioni di tonnellate, mentre i rifiuti speciali (tra cui meno del 10% viene dal trattamento dei rifiuti urbani) è in continuo aumento (più di 150 milioni di tonnellate nel 2020). Comprensibilmente, gli indicatori sulla ricchezza prodotta in Italia (Pil) e l’aumento spesa delle famiglie sono correlati ad una maggiore produzione dei rifiuti.

Allargando lo sguardo, oltre alla variabile del quantitativo di rifiuti da gestire, un serio sistema di prevenzione deve affrontare la materia dei varchi normativi in campo penale e civile che incentivano direttamente o indirettamente condotte lesive o pericolose. Lo ribadisce la stessa Commissione Parlamentare di inchiesta sull’attività illecite connesse allo smaltimento illecito dei rifiuti nella relazione trimestrale approvata nel dicembre 1995:

«La mancanza di una legislazione chiara e precisa, il ritardo e l'inerzia nell'attuazione della normativa hanno contribuito a creare una costante ‘emergenza rifiuti’, terreno fertile per le infiltrazioni di operatori senza scrupoli e per la criminalità organizzata»[9].

Un elemento criminogeno è certamente l’assenza di una pianificazione di concerto tra le differenti realtà coinvolte nel ciclo dei rifiuti: imprenditori, amministratori, esperti, intermediari, forze dell’ordine etc., nonché la presenza/carenza degli impianti di valorizzazione del rifiuto, che in base al dislocamento geografico (s)favorisce l’opportunità criminale.

Da tali presupposti è chiaro allora che sebbene la criminalità ambientale venga «definita frequentemente nel dibattito pubblico come emergenza, quella dei rifiuti è in realtà una questione che poggia su fattori strutturali»[10] e congiunturali. I fattori congiunturali possono essere legati sia a trasformazioni dello scenario locale-nazionale (dato dalle norme, politiche pubbliche, inchieste o da crisi economica) sia a mutamenti geopolitici ed economici, come ha dimostrato la chiusura del governo cinese all’importazione delle materie plastiche[11].

Non sempre le trasformazioni auspicate ed intenzionali, come le evoluzioni normative a tutela ambientale, sono un elemento immune dal favorire in maniera non intenzionale effetti inattesi. Ad esempio, già agli inizi degli anni 2000, l’istituto internazionale UNICRI ha riscontrato che una rigorosa regolazione dei rifiuti speciali, generando maggiori costi a carico del produttore del rifiuto, implica un maggior grado di propensione al crimine da parte degli stessi[12].

In conclusione, la presenza ecocriminale, la crisi dell’assetto industriale e la capacità di gestione dei rifiuti sono temi estremamente interconnessi[13]. È bene anticipare che l’organizzazione criminale ambientale, in particolare nel settore dei rifiuti, non coincide con quella dell’organizzazione mafiosa.

Benché storicamente, nel caso campano, l’apporto organizzativo-criminale del clan dei Casalesi sia stato fondamentale, tanto da rendere automatica agli occhi dell’opinione pubblica l’associazione “reati ambientali e mafie”. Anche da un punto di vista prettamente normativo, il fenomeno criminale dello smaltimento dei rifiuti non è modellato prendendo a riferimento il fenomeno della c.d. “ecomafia”; ciò permettere di applicare lo strumento penalistico anche a soggetti, imprese ed organizzazioni che svolgono, anche solo parzialmente, attività lecite[14].

A tal proposito, la Direzione nazionale antimafia ritiene che il reato di attività organizzate del traffico illecito di rifiuti (ex art. 260 D.lgs. n. 152/2006) debba ritenersi un «delitto di impresa» e non nello specifico un «delitto di mafia», «dal momento che si tratta di una fattispecie mono-soggettiva ritagliata perfettamente sullo strutture dell'attività imprenditoriale»[15]. Da tale consapevolezza, emerge quindi che «sarebbe più utile focalizzarsi non solo sulle caratteristiche dei criminali, ma anche, in particolare, sulle tecniche usate per perpetrare questi generi di reati»[16].

È doveroso aggiungere che l’attività dello smaltimento illecito dei rifiuti si integra totalmente all’interno di una triangolazione composta dal settore dell’edilizia, del movimento terra e trasporti e dal traffico rifiuti. Ancora, lo smaltimento illecito «si configura come un prezioso strumento di collegamento e di saldatura di interessi con imprese legali, le quali, complice la crisi economica, abbandonano con maggiore facilità rispetto al passato la via segnata dalla normativa comunitaria e nazionale, cercando scorciatoie per aggirare i costi e conseguire profitti»[17].

Lo smaltimento illecito dei rifiuti e la questione mafiosa

Come si è detto, analizzando il fenomeno nel corso degli anni, emerge che gli illeciti ambientali coinvolgono un’ampia platea di soggetti, tra i quali anche le stesse organizzazioni di stampo mafioso, le quali si presentano alle aziende che necessitano tali servizi e li svolgono, a prezzi ovviamente concorrenziali.  

Oltre all’individuazione specifica delle soggettività criminali, qualsiasi discussione che tratti di criminalità ambientale, specialmente se connessa a fenomeni mafiosi, non può prescindere dalla comprensione geografica del fenomeno che sta alla radice delle «questioni territoriali» che insistono sulle comunità-vittime.  

Prendendo in prestito una definizione urbanistica del concetto di “territorio”, esso può essere definito come «il prodotto storico di atti culturali dell'uomo in relazione dialettica e coevolutiva con l'ambiente naturale»[18]. Pertanto, chi più delle organizzazioni mafiose, in forza della loro capacità, o meglio, del loro metodo, è in grado di produrre delle trasformazioni territoriali e culturali finalizzati alla privatizzazione violenta dei beni comuni, i beni ambientali. Infatti, è il «controllo del territorio», uno dei requisiti essenziali che identificano un’organizzazione mafiosa, in quanto una forma di potere[19].  

È solo con il controllo del territorio che è possibile, ad esempio, muovere enormi quantità di terreno, riempire le buche con rifiuti ed ottenere il “consenso” dei proprietari dei terreni a svolgere tali attività. Ciò è anche favorito talvolta dall'omertà derivante dalla forza di intimidazione[20] derivante dal vincolo associativo tipico delle organizzazioni mafiose.  

Non da meno è da segnalare che l’incessante intensificazione di un’edilizia speculativa ha permesso l’intreccio con interessi di natura illecita[21], che sfociano dai casi di clientelismo, fino ad arrivare a sistemi ben oliati di corruzione o di governo mafioso della cosa pubblica. Tra i numerosi fattori intenzionali e non intenzionali, il radicamento mafioso nelle regioni del Nord è avvenuto anche a partire dall’indebolimento del sistema amministrativo locale[22], e da un corpo sociale che già manifestava i sintomi di un “corpo non propriamente sano”. In sostanza, parafrasando il giudice Giovanni Falcone[23], le organizzazioni mafiose proliferano in contesti che sono già orientati a pratiche di malaffare e di illegalità.  

Sui contesti civili lontani dai tradizionali insediamenti mafiosi, anche quelli caratterizzati da elevati standard di ricchezza, capitale culturale e senso civico, in realtà, il metodo mafioso «può produrre oltre che effetti di ripulsa (che fra l’altro produce anche nelle comunità di origine, dove se ne incontrano anzi le forme più eroiche) effetti di attrazione»[24].  

Tale constatazione è vera anche quando si tratta di smaltimento dei rifiuti. È infatti «frequente che la organizzazione di stampo mafioso sviluppi un rapporto paritario, così che l’imprenditore colluso è indotto a cooperare dalla prospettiva di vantaggi economici reciproci»[25]. Da una parte, l’organizzazione mafiosa può esercitare il suo potere attraverso l’uso diretto o indiretto della violenza, oppure anche solo tramite un richiamo simbolico della stessa; dall’altra, le condizioni del settore economico in oggetto incentivano gli attori legali di avvicinarsi tramite rapporti di collusione con i soggetti mafiosi, rendendo i confini delle attività economiche sempre più sfumate.  

Storicamente, la motivazione che ha spinto i clan mafiosi ad inserirsi in questo settore è stata ben esemplificata dal Presidente del Senato Pietro Grasso nel corso di un suo intervento:

«La consapevolezza dell'importanza assunta dal settore dei rifiuti per la criminalità organizzata può essere tutta riassunta in poche parole, di straordinaria efficacia, pronunciate da un mafioso [...] "Buttiamoci sui rifiuti: trasi munnizza e niesci oro"». Oltre all’ingente guadagno, il soggetto criminale è stato facilitato da una legislazione pressoché assente o debole che rendeva l’attività illecita fortemente attrattiva. Inoltre, vi sono altre “variabili di contesto”. Al nord, in particolare in Lombardia, le attività (formalmente) lecite che costituiscono la vasta gamma della criminalità ambientale mafiosa non hanno una geografia propriamente casuale, anzi, nella maggioranza dei casi sono distribuite in territori con proprietà demografiche particolari: comuni di piccole dimensioni, elevate densità demografiche, presenza di forti processi di immigrazione»[26].

A livello qualitativo, le variabili indipendenti associate all’intensità dei processi migratori, alle condizioni locali (senso civico, politica locale, natura dei mercati legali/illegali etc.) si innesca con quella che il prof. Varese definisce la domanda di mafia. Un fattore esplicativo della presenza mafiosa in un territorio, sia nel momento della nascita del fenomeno a livello locale tradizionale che nella fase del radicamento. Nel caso dei settori esposti dalla criminalità ambientale, la domanda di protezione mafiosa emerge quando «gli imprenditori entrano nella sfera dell'illegalità cercando di vendere merci o produrre servizi legali in modo illecito, per esempio tentando di eliminare la concorrenza oppure di organizzare accordi di cartello con l'appoggio della mafia»[27].

L'evoluzione della normativa italiana

Se consideriamo lo scenario normativo italiano, occorre tenere a mente due dati di fatto che hanno inciso sull’evoluzione legislativa in materia ambientale: in primo luogo, esso è stato profondamente segnato, anche in tempi recenti, dalle travagliate vicende giudiziarie che si sono succedute nel corso dei decenni; in secondo luogo, l’esistenza di un movimento civile e di opinione pubblica che si è fatto promotore, assieme agli sforzi degli esponenti della magistratura, di una richiesta di giustizia, di un cambiamento culturale (anche a livello giuridico) capace di incidere sulla questione ambientale. Un altro aspetto che non è trascurabile è il persistente ritardo delle istituzioni del nostro paese ad allinearsi alle normative sovranazionali. E quindi nell’adoperarsi alla costruzione di un sistema legislativo in sede penalistica coerente, organico e puntuale finalizzato alla tutela di beni giuridici contigui alla vita, alla salute, all’ambiente etc.[28].  

La criminalità ambientale, infatti, ha goduto per decenni di un vuoto normativo abnorme, che ha favorito il calcolo utilitaristico[29] da parte di chi poteva scegliere se ottenere benefici economici scaricando costi sulla collettività e sull’ambiente. Come ha ben ricordato Stefania Pellegrini «l’ordinamento italiano, difatti, ha introdotto la fattispecie di reato ambientale come delitto solo nel 1997 mediante il c.d. decreto Ronchi. Prima di questa data, i reati ambientali erano esclusivamente di natura contravvenzionale»[30].  

Fino ad allora, comportamenti (dolosi o colposi) generatori di danni consistenti all’ambiente e alle persone come lo smaltimento illecito di rifiuti, l’inquinamento di un’area protetta, l’omissione negli atti di controllo e messa in sicurezza degli scarichi industriali, il cagionare un crollo di un edificio etc. erano considerati una categoria di reati di minore entità[31].  

Nonostante il tentativo (ancora non raggiunto) di armonizzare la vasta normativa in campo ambientale attraverso il T.U.A. con il D.lgs. 3 aprile 2006 n. 152, bisognerà attendere quasi 20 anni per l’introduzione di una previsione normativa penale di reato ambientale. Infatti, è la legge n. 68/2015 a ridisegnare il sistema di tutela penale dell’ambiente, articolando in maniera ampia e differenziata le possibili condotte illecite[32].  

Il collocare all’interno della cornice penalistica i reati ambientali introdotti dalla legge n. 68/2015 (inquinamento ambientale, disastro ambientale, traffico di materiale radioattivo, omessa bonifica e impedimento del controllo) ha attribuito alla legge penale la sua funzione fondamentale di prevenzione generale degli illeciti e dell’orientamento dei comportamenti.  

Come osservato dalla dottrina, la tal legge, che ha introdotto nel nostro Codice penale il Titolo VI-bis dedicato specificatamente ai delitti ambientali, ha avuto il merito di valorizzare «una diversa concezione del bene ambiente, più vicina ad una visione di tipo eco-centrico»[33], piuttosto che orientata alla tradizionale impostazione giuridica di stampo antropocentrico.  

La complessità normativa (spesso ingiustificata) rende talvolta inefficace da un lato l’attività investigativa e di repressione dell’illecito, dall’altro quella strettamente necessaria della prevenzione e del controllo. D’altro canto, sul profilo dell’operatività criminale, l’interazione di numerosi attori alla frontiera tra illecito-lecito permette facilmente di rimodulare l’azione criminale in funzione della rotta nel caso dei rifiuti, dell’esigenze di occultamento del crimine ambientale determinate da un’intensificazione dei controlli o delle misure di investigazione.  

Ne sono testimonianza viva le cave dismesse che diventano luoghi di discarica abusiva, fino a contaminare le falde acquifere; i terreni agricoli cosparsi di fanghi tossici oppure le nuove costruzioni nelle sedimenta adibite appositamente a deposito di ingenti quantitativi di rifiuti speciali.  

In riferimento particolare ai rifiuti industriali (alcuni particolarmente pericolosi a causa della tossicità), è «a partire dalla seconda metà degli anni ottanta che si sono diffuse pratiche di smaltimento illegale di rifiuti industriali formalmente destinati a discariche collocate nelle regioni meridionali»[34], ovvero nei territori storicamente più fragili poiché sprovvisti di adeguate strutture ed architetture per gestire il ciclo dei rifiuti.

Note

  1. Definizione di Michael Lynch (2003) estratta da Natali, Lorenzo (2015). Green criminology: Prospettive emergenti sui crimini ambientali, Torino, Giappichelli Editore, p. 25
  2. In Stefania Pellegrini (2018), L’impresa grigia. Le infiltrazioni mafiose nell’economia legale. Un’indagine sociologica, Roma, Ediesse, p. 37, l’autrice sottolinea, inoltre, il peso delle recenti attività criminali contro il patrimonio ambientale e artistico come il traffico clandestino di opere d’arte rubate e il traffico di animali esotici.
  3. Citato in Lorenzo Natali, Green criminology: Prospettive emergenti sui crimini ambientali, Torino, Giappichelli Editore, 2015, p. 21.
  4. In Marco Armiero (2019). Wasted Spaces, Resisting People: the politics of waste in Naples, Italy, in Tempo e Argumento, Vol. 11, n. 26, pp. 135–156, l’autore segnala il fatto che le autorità erano decisamente consapevoli del fatto che le discariche nella regione fossero precarie. Nel dettaglio, solo 21 delle 124 discariche attive tra il 1992 e 1994 erano conformi alle normative.
  5. Citato in Luca Bonzanni, 2019. Ecomafie, oggi: l’inversione della rotta dei rifiuti illeciti , Università degli Studi di Milano, p. 127.
  6. Citato in Francesca Rosignoli (2018). La giustizia ambientale e Danilo Dolci, in Rivista di Studi e Ricerche sulla Criminalità Organizzata, CROSS - Osservatorio sulla Criminalità Organizzata, Università degli Studi di Milano, Vol. 4, n. 1, pp. 132-169
  7. Sito Ufficiale Legambiente, Ecomafia 2023. Storie e numeri della criminalità ambientale in Italia, www.legambiente.it, ultima consultazione il 27 gennaio 2024
  8. Ispra, Rapporto Rifiuti Urbani 2020, Presentazione ufficiale, p. 27. Ispra, Rapporto Rifiuti Speciali 2021, Presentazione ufficiale, p. 4.
  9. Commissione parlamentare di inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse (1995). Relazione trimestrale, Doc. XXII-bis, n.1, Roma, 21 dicembre, p. 45.
  10. Luca Bonzanni (2019), op.cit., p.128.
  11. Il tema è ripreso costantemente dagli esponenti della magistratura, dalle relazioni delle Commissioni parlamentari e di inchiesta sul traffico di smaltimento illecito dei rifiuti. Si approfondirà successivamente esponendo il caso lombardo.
  12. Monica Massari, Paola Monzini (2004). Dirty business in Italy: a case study of trafficking in hazardous waste, in Global Crime, 6, p. 301
  13. Per una panoramica generale sul rapporto tra livello di produzione rifiuti e crisi assetto industriale connesso alla presenza delle ecocamorre si rimanda a Daniele, Fortini (2012). “Rifiuti urbani e rifiuti speciali: i fattori strutturali delle ecocamorre, in  Meridiana , 73/74 (1), pp. 89-102
  14. Antonio Galanti (2018). Il traffico illecito di rifiuti: il punto sulla giurisprudenza di legittimità, in Diritto Penale Contemporaneo, n.12, pp. 33. Il reato di traffico di rifiuti, l’art. 452-quaterdecies del Codice penale, punisce con la reclusione da uno a sei anni «chiunque, al fine di conseguire un ingiusto profitto, con più operazioni e attraverso l'allestimento di mezzi e attività continuative organizzate, cede, riceve, trasporta, esporta, importa, o comunque gestisce abusivamente ingenti quantitativi di rifiuti”.
  15. Stefania Pellegrini, op.cit., p. 53.
  16. Monica Massari, Paola Monzini, op.cit., p.300. Traduzione di Giovanni Gumina.
  17. CROSS (2019). Monitoraggio sulla presenza mafiosa in Lombardia, Parte II, Milano, 11 marzo, p. 31
  18. Definizione dell’urbanista Magnaghi (2001, p.18) estratta da Andrea Alcalini (2015), prime tracce per un percorso di ricerca: territorio, (s)regolazioni e anomalie criminali organizzate [consultato in www.Academia.edu il 22 maggio 2022]
  19. Nando dalla Chiesa (2010). La Convergenza, Milano, Melampo Editore.
  20. Da un punto di vista giuridico, ex art. 416bis del c.p., l’individuazione dell’elemento della forza intimidatrice derivante dal vincolo associativo è centrale al fine di riconoscere la mafiosità dell’organizzazione criminale. Per un approfondimento sul tema si suggerisce di consultare Stefania Pellegrini (2018), op.cit.
  21. Elena Granata e Paola Savoldi (2012). Gli habitat delle mafie nel Nord Italia, in Territorio, n. 63, p. 28
  22. Elena Granata, Arturo Lanzani, Al Nord. Astuzie mafiose in un sistema fragile, pp. 71-74.
  23. E’ nota la citazione del giudice Falcone “La mafia non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano” del Giudice Falcone riportata in Giovanni Falcone, in collaborazione con Marcelle Padovani (1991). Cose di Cosa Nostra, Milano, Rizzoli.
  24. Nando dalla Chiesa (2020), La mafia come virus. Insegnamenti involontari della pandemia (a proposito di un dibattito quasi antico), in Rivista di Studi e Ricerche sulla criminalità organizzata, Vol. 6, n.1, CROSS - Osservatorio sulla Criminalità Organizzata, Università degli Studi di Milano, p. 18.
  25. Maurizio Catino (2020),  Le organizzazioni mafiose: la mano visibile dell’impresa criminale, Bologna, Il Mulino, p. 428.
  26. CROSS (2014), Osservatorio sulla Criminalità Organizzata dell’Università degli Studi di Milano, Primo rapporto sulle aree settentrionali per la Presidenza della Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno mafioso, Milano, 10 marzo, p. 12.
  27. Federico Varese (2011).  Mafie in movimento. Come il crimine organizzato conquista nuovi territori , Torino, Einaudi, p. 36. Corsivo di chi scrive.
  28. Tale scopo sarà raggiunto (con discreto successo) solamente con la l. 22 maggio n. 68 del 2015
  29. Il concetto è ripreso fedelmente dalla teoria socio-economica di Gary Becker (1968).  Crime and punishment: an economic approach in  Journal of Political Economy , Vol. 76, n.2, pp. 169-217.
  30. Stefania Pellegrini, op.cit., p. 44
  31. L’art. 39 c.p. sancisce la distinzione (formale) dei reati in contravvenzioni e delitti: «I reati si distinguono in delitti e contravvenzioni, secondo la diversa specie delle pene per essi rispettivamente stabilite da questo codice»
  32. Legambiente, Ecomafia (2016). Le storie e i numeri della criminalità ambientale in Italia, Milano, Edizioni Ambiente, p. 55
  33. Luisa Siracusa (2015). La legge 22 maggio 2015, n. 68 sugli “ecodelitti: una svolta quasi epocale per il diritto penale dell’ambiente”, in Riv. trim. dir. pen. cont., n.2, p. 201.
  34. Commissione parlamentare di inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse (1995). Relazione trimestrale, Doc. XXII-bis, n.1, Roma, 21 dicembre, p. 57. Corsivo di chi scrive

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