Maxiprocesso di Palermo: differenze tra le versioni
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Nella fase dibattimentale, furono numerosi gli episodi di tensione. Gli imputati nelle celle mostrarono spesso segni di nervosismo. L'imputato Alfredo Bono partecipò alle udienze su una lettiga, a causa della malattia. | Nella fase dibattimentale, furono numerosi gli episodi di tensione. Gli imputati nelle celle mostrarono spesso segni di nervosismo. L'imputato Alfredo Bono partecipò alle udienze su una lettiga, a causa della malattia. | ||
Dopo le prime 14 ore, di notte, per ordine della Corte, il numero di imputati si ridusse da 474 a 468. Sei imputati detenuti tra l'America e l'Egitto (tra cui il boss Gaetano Badalamenti) furono tolti dal processo per evitare un nulla di fatto. | |||
Il 20 febbraio 1986 fu arrestato a Ciaculli, in un casolare con un mulo, [[Michele Greco]] detto "il Papa", capo della Cupola di Cosa nostra, dopo due anni di latitanza. | Il 20 febbraio 1986 fu arrestato a Ciaculli, in un casolare con un mulo, [[Michele Greco]] detto "il Papa", capo della Cupola di Cosa nostra, dopo due anni di latitanza. |
Versione delle 09:45, 21 giu 2013
Il Maxiprocesso di Palermo è il processo svoltosi nell'aula bunker del Carcere Ucciardone di Palermo tra il 10 febbraio 1986 e il 16 dicembre 1987. Il processo coinvolse 474 imputati ritenuti essere membri dell'associazione Cosa Nostra.
Il processo fu considerato la prima vera reazione dello Stato Italiano nei confronti della mafia siciliana. I membri di Cosa Nostra furono per la prima volta condannati in quanto appartenti ad un'organizzazione mafiosa unitaria e di tipo verticistico. Il processo fu possibile grazie alla nascita del cosidetto Pool antimafia di Palermo. I giudici appartenti al Pool permisero di avere una visione completa del fenomeno della mafia siciliana, almeno al livello militare. Oltre all'accentramento delle indagini nelle mani di un gruppo di magistrati specializzati, l'altro elemento di forza del Maxiprocesso fu l'utilizzo dei pentiti: Tommaso Buscetta per primo, poi Salvatore Contorno ed altri collaboratori permisero di guardare dentro a Cosa Nostra come mai prima di allora.
Antefatti
Negli anni precedenti al Maxiprocesso va in scena il golpe militare che il Clan dei Corleonesi scatena per impossessarsi del comando di Cosa nostra. Dopo gli omicidi di Stefano Bontate, il 23 aprile 1981, e Salvatore Inzerillo, l'11 maggio 1981 , inizia la cosidetta mattanza. I Corleonesi uccidono centinaia di membri delle storiche famiglie della mafia palermitana dando origine alla Seconda Guerra di Mafia.
Parallelamente agli omicidi tra le cosche, i Corleonesi iniziano una politica di attacco frontale nei confronti dei rappresentanti delle istituzioni. Vengono trucidati tra gli altri Boris Giuliano, Cesare Terranova, Gaetano Costa, Piersanti Mattarella, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Pio La Torre.
Il pool antimafia
- Per approfondire vedi Pool antimafia di Palermo
L'intuizione per far fronte a questa tragica sequenza di morti viene da Rocco Chinnici, allora a capo dell'ufficio istruzione di Palermo. Chinnici decide di affidare le indagini sulla mafia ad un gruppo specializzato di magistrati, favorendo la circolazione e la condivisione delle informazioni. In tal modo si riuscì ad esaminare in maniera complessiva la mafia, non più analizzando soltanto ristrette porzioni del fenomeno, ma esaminandolo con uno sguardo d'insieme. Il Pool e il capo della Squadra Mobile, il vicequestore Ninni Cassarà, avviarono un'azione di contrasto a Cosa nostra come mai prima di allora. La risposta della mafia non si fece aspettare, e arrivò con l'omicidio di Rocco Chinnici, il 23 luglio 1983. A sostituirlo fu chiamato Antonino Caponetto, che portò ad un livello ancora di maggiore efficacia il funzionamento del Pool, ora composto da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello. Fu data particolare importanza al metodo investigativo inaugurato da Giovanni Falcone e basato sull'analisi dei movimenti bancari per comprendere collegamenti che altrimenti non sarebbero mai emersi. Nel giugno 1982 viene stilato da Ninni Cassarà in persona il "Rapporto dei 162", l'embrione che costituì la base del Maxiprocesso. Il principio della centralizzazione delle indagini ebbe come ovvia conseguenza la necessità di riunificare tutte le istruttorie in un unico processo. Aggiungendo altri filoni investigativi al nucleo di indagine originario, prese forma quella che poi sarebbe divenuta l'istruttoria del Maxiprocesso.
Una svolta fondamentale fu l'irrompere sulla scena di Tommaso Buscetta, nel 1984, che con le sue dichiarazioni permise uno sguardo inedito dentro a Cosa nostra.Il 29 settembre 1984, grazie alle dichiarazioni di Buscetta, scatta il blitz di San Michele durante il quale vengono eseguiti i mandati di cattura nei confronti di 366 presunti mafiosi.
I pentiti
Il ruolo dei pentiti fu fondamentale per l'avviamento delle indagini e per lo svolgersi del processo. Le loro dichiarazioni permisero una lettura innovativa dell'organizzazione Cosa nostra.
I pentiti furono 21, tra gli altri: Tommaso Buscetta, Salvatore Contorno, Vincenzo Sinagra, Stefano Calzetta, Sebastiano Dattilo, Gennaro Totta, Koh Bak Kin, Rodolfo Azzoli, Salvatore Di Marco.
Tommaso Buscetta
Tommaso Buscetta disegnò la struttura e il funzionamento di Cosa Nostra mostrando il fenomeno mafioso sotto una nuova luce. Il contributo più importante di Buscetta infatti "è consistito nell'aver offerto una chiave di lettura dei fatti di mafia, nell'aver consentito di guardare dall'interno le vicende dell'organizzazione"[1]
Le dichiarazioni principali di Buscetta possono essere sintetizzate come segue:
- Cosa nostra: I mafiosi riferendosi all'organizzazione non parlano di mafia ma di Cosa nostra. La vita dell'organizzazione è disciplinata da un rigido regolamento di natura orale e non scritta. Queste norme regolano anche l'ingresso di uomini nella struttura mafiosa. Cosa nostra è ormai strutturata in ogni provincia siciliana, ma il centro del potere dell'organizzazione è Palermo.
- Suddivisione territoriale: La città di Palermo è organizzata in mandamenti: le famiglie prendono il nome dal mandamento a cui appartengono. Per quanto riguarda la provincia di Palermo, le famiglie prendono il nome del paese in cui operano. Tre famiglie territorialmente limitrofe costituiscono un mandamento ed eleggono un solo rappresentante. I capi dei mandamenti palermitani e i rappresentanti dei mandamenti provinciali compongono la Commissione.
- Dopo l'ascesa dei Corleonesi è nata la cosidetta Interprovinciale, che ha il compito di coordinare gli interessi di più province.
- Commissione: La Commissione sovrintende, controlla e dispone il governo di Cosa Nostra. L'organismo ha il compito di assicurare il rispetto delle regole di Cosa Nostra e risolvere le eventuali frizioni tra famiglie. Ad esempio, per ordinare un omicidio, il rappresentante di una famiglia deve rivolgersi al capo mandamento, il quale tratterà la questione in Commissione. Nel caso dell'omicidio di un capofamiglia, l'assassinio deve avvenire con il consenso della famiglia (oltre che della Commissione). In caso contrario sono quasi inevitabili gravi conseguenze per chi trasgredisce.
- Mentre in origine la figura che controllava la Commissione era quella del Commissario, successivamente fu chiamato Capo
- Famiglia: Ogni famiglia è una struttura a base territoriale con una costituzione gerarchica. Gli uomini d'onore o soldati sono organizzati in gruppi da dieci, le decine, ciascuna delle quali è coordinata da un capodecina. La famiglia è governata da un rappresentante con nomina elettiva. Il rappresentante è poi assistito da un vicecapo e da uno o più consiglieri.
Buscetta illustrò inoltre le dinamiche che hanno portato allo scatenarsi della Seconda Guerra di Mafia, con il prevalere dello schieramento corleonese sull'ala moderata di Cosa Nostra, ovvero quella rappresentata da Stefano Bontade e Salvatore Inzerillo, che avevano comandato su Palermo fino a quegli anni.
Le dichiarazioni di Tommaso Buscetta furono confermate dai riscontri, anche se la descrizione che diede il pentito di alcuni avvenimenti fu accettata con qualche riserva. La visione dell'ascesa dei Corleonesi si basava infatti su uno spinto dualismo che mostra il punto di vista unilaterale del pentito. La contrapposizione tra buoni (i membri della mafia perdente) e cattivi (i Corleonesi) è chiaramente dettata dall'appartenenza di Buscetta al primo schieramento. Nonostante i tentativi di Buscetta di ridimensionare la ferocia dei membri della fazione perdente spacciandola per "ala moderata", i boss sconfitti erano feroci assassini dall'alto spessore criminale.
Salvatore Contorno
Salvatore Contorno, detto "Coriolano della Floresta", era un killer della famiglia di Santa Maria del Gesù, sopravvissuto ad un agguato dei killer dei corleonesi. Nel rapporto di Ninni Cassarà era stato chiamato "Fonte prima luce". Fu definito dalla Corte d'Assise "pietra miliare del processo per quanto riguarda la conoscenza dell'organizzazione mafiosa, i suoi riti, i suoi personaggi: per la comprensione del fenomeno sopratutto nei suoi aspetti pratici."[2] In particolare Contorno descrisse accuratamente il funzionamento dei gruppi di fuoco dell'ala militare di Cosa nostra, proponendo un modello di analisi che si rivelò utile nella ricostruzione di molti omicidi. Le sue dichiarazioni contribuirono all'arresto di circa 160 persone.
Nelle dichiarazioni di Contorno sono però riscontrabili alcune differenze con quello che aveva affermato Tommaso Buscetta. In particolare per quanto riguarda la composizione della Cupola, Contorno incluse tra i membri anche personaggi come Benedetto Santapaola, Mariano Agate e Leonardo Greco. La ricostruzione di Contorno fu ritenuta però meno attendibile di quella di Buscetta, dal momento che quest'ultimo, essendo di un prestigio ben maggiore, aveva una conoscenza approfondita e in prima persona dei piani più alti dell'organizzazione.
Vincenzo Sinagra
Questo individuo grigio, rozzo, indotto, disarmante nella sua ingenuità elementare, carente in modo assoluto di doti particolari e di sagacia e di furbizia, assurge tuttavia ad esempio di elevatezza morale e di civismo concreto, cedendo d'improvviso, in una sublime catarsi autopunitiva, all'impulso irrefrenabile di rigurgitare tutti i tremendi delitti di cui è stato spettatore e partecipe[2]
Vincenzo Sinagra fu un collaboratore fondamentale per la sua conoscenza di crimini e omicidi efferati. Egli era stato un killer della famiglia di Corso dei Mille. Le sue dichiarazioni, confermate da numerosi riscontri oggettivi, portarono al chiarimento delle dinamiche legate a numerosi fatti di mafia. Grazie alla sua testimonianza, ad esempio, fu scoperta la "camera della morte" di Piazza Sant'Erasmo: il luogo dove gli uomini del clan Marchese, egemone a Corso dei Mille, torturavano e uccidevano le loro vittime.
Stefano Calzetta
Stefano Calzetta fu un utile collaboratore, nonostante alcune riserve di cui si volle tener conto nel valutare le sue dichiarazioni. Furono considerate attendibili infatti solo le narrazioni di fatti di cui era stato testimone. Inoltre, i continui ripensamenti sul suo pentimento (si finse pazzo e disse di aver avuto un'amnesia) e sulle dichiarazioni, furono un altro elemento che indusse la Corte ad agire con prudenza. Calzetta inoltre non era affiliato ufficialmente a Cosa nostra, infatti al Maxiprocesso fu assolto per insufficienza di prove in merito all'accusa di 416bis.
Le origini della sua collaborazione con la giustizia sono probabilmente da ricercare nel timore di essere ucciso, dal momento che Calzetta aveva parlato del ruolo di Mario Prestifilippo nella Strage di Via Isidoro Carini.
Prima del processo
Il processo prese le mosse con molte difficoltà. Gli avvocati degli imputati speravano di riuscire a farlo trasferire altrove, in modo che i giudici fossero meno esperti in fatto di mafia. Inoltre, temendo ritorsioni, inizialmente soltanto 4 giudici popolari accettarono l'incarico. Alla fine ne furono scelti 16: più del neccessario per paura di rinunce o attentati. Per quanto riguarda il presidente fu scelto Alfonso Giordano che proveniva dalla magistratura civile e non penale.
Parte dei media si rivelò ostile al processo, sostenendo che fosse impossibile processare un'intera organizzazione e che ciò comportasse un enorme spreco di denaro e risorse, oltre ad essere dannoso per l'immagine della città. Per gli stessi motivi, la cittadinanza si trovò spaccata tra i sostenitori e i critici del processo.
Il comune di Palermo, per volere del sindaco Leoluca Orlando, si costituì parte civile.
L'istruttoria e l'ordinanza di rinvio a giudizio
Dopo gli omicidi in rapida successione del commissario Beppe Montana, il 28 luglio 1985, e del vicequestore Ninni Cassarà, il 6 agosto 1985, i giudici del Pool antimafia si trovarono in una condizione di reale e grave pericolo. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino vengono trasferiti d'urgenza con le loro famiglie al carcere dell'Asinara per completare l'istruttoria del processo. Una volta concluso il lavoro, verrà addirittura chiesto ai due giudici di pagare le spese per il vitto e l'alloggio della loro permanenza sull'isola.
L'ordinanza-sentenza contro Abbate Giovanni + 706 viene depositata l'8 novembre 1985.
L'aula bunker
L'aula bunker fu costruita in Via Enrico Albanese, all'interno del complesso del carcere Ucciardone, per permettere uno spostamento agevole dei detenuti.
L'aula fu provvista di sofisticati sistemi di sicurezza, porte blindate e vetri antiproiettile per evitare il rischio di attentati e fughe, mentre il soffitto fu costruito in modo che potesse resistere ad attacchi aerei.
- Per approfondire vedi Aula Bunker del carcere Ucciardone
Il processo
Il processo si aprì in una situazione di enorme tensione e di grande attenzione mediatica. Cosa Nostra impose il silenzio militare fino alla sentenza, e il numero di omicidi si ridusse in modo considerevole.
Con un apposito decreto del 6 febbraio 1986, furono nominati:
- due pubblici ministeri: Giuseppe Ayala e Domenico Signorino
- due presidenti: Alfonso Giordano e il supplente Antonio Prestipino
- due giudici a latere: Pietro Grasso e il supplente Claudio Dell'Acqua
Il 10 febbraio 1986, tre mesi dopo l'ordinanza di rinvio a giudizio, il processo cominciò ufficialmente.
Imputati
- Per approfondire vedi la pagina Imputati del Maxiprocesso di Palermo
La fase dibattimentale
Nella fase dibattimentale, furono numerosi gli episodi di tensione. Gli imputati nelle celle mostrarono spesso segni di nervosismo. L'imputato Alfredo Bono partecipò alle udienze su una lettiga, a causa della malattia.
Dopo le prime 14 ore, di notte, per ordine della Corte, il numero di imputati si ridusse da 474 a 468. Sei imputati detenuti tra l'America e l'Egitto (tra cui il boss Gaetano Badalamenti) furono tolti dal processo per evitare un nulla di fatto.
Il 20 febbraio 1986 fu arrestato a Ciaculli, in un casolare con un mulo, Michele Greco detto "il Papa", capo della Cupola di Cosa nostra, dopo due anni di latitanza.
I pentiti
Il 3 aprile 1986 l'avvocato di Tommaso Buscetta dichiarò: "L'imputato Tommaso Buscetta, che aveva rinunziato a comparire, è a disposizione della Corte". Scortato dai carabinieri e dal vicequestore Antonio Manganelli, Buscetta fece il suo ingresso in aula nell'assoluto silenzio, a riprova del ruolo apicale che aveva svolto all'interno di Cosa nostra. Il processo entrò nel vivo quando Buscetta iniziò a parlare.
Affermò: "Ero entrato e rimango con lo spirito di quando io ero entrato. [...] Cosa Nostra, ha sovvertito l'ideale [...] con delle violenze che non appartenevano più a quegli ideali. Io non condivido più quella struttura a cui io appartenevo. Quindi non sono un pentito." Buscetta scaricò così la responsabilità del suo pentimento sullo schieramento corleonese, colpevole di aver snaturato l'organizzazione.
- Per approfondire vedi Dichiarazioni di Tommaso Buscetta al Maxiprocesso
L'unico confronto fu quello tra Tommaso Buscetta e Pippo Calò. Calò era il capofamiglia di Porta Nuova, la famiglia a cui era appartenuto Buscetta, e i due erano stati grandi amici. Dopo lo scoppio della Seconda Guerra di mafia però, Calò passò allo schieramento corleonese. Durante il confronto, che sarebbe dovuto servire per dimostrare la falsità delle accuse, le cose andarono in maniera del tutto diversa. Alla fine infatti il vincitore si rivelò Buscetta stesso, mentre Calò non riuscì a replicare alle dure accuse del collaboratore di giustizia.
Alla fine gli avvocati degli imputati che avevano chiesto a loro volta il confronto, ritirarono la loro richiesta, comprendendo che sarebbe stato controproducente. Tra gli altri, avevano chiesto il confronto Luciano Leggio il 9 aprile 1986, Giuseppe Bona e Tommaso Spadaro che avevano dichiarato di essere in possesso di documenti che potevano provare la falsità delle accuse rivolte. Anche queste richieste di confronto furono ritirate.
Dopo Buscetta fu il turno del collaboratore Salvatore Contorno. Il suo ingresso in aula fu accolto in maniera diversa rispetto a Buscetta: dalle gabbie si levarono grida e insulti. Anche questo fu una prova della differenza di spessore criminale che separava i due collaboratori di giustizia. Inoltre fu origine di grandi problemi il fatto che Contorno utilizzasse per parlare uno stretto dialetto palermitano. In questo modo, era sicuro di farsi capire dagli imputati, ma la comprensione risultava difficile per chi non fosse avvezzo all'uso del dialetto.
Durante la deposizione, il presidente Giordano rivolse una domanda a Contorno in maniera errata, poichè sembrava che il presidente stesse aiutando il collaboratore a ricordare le dichiarazioni fatte in istruttoria. Nell'aula si levarono le grida di protesta dei detenuti, e gli avvocati chiesero la ricusazione nei confronti di Alfonso Giordano. La seduta fu sospesa e la richiesta di ricusazione respinta dalla Corte d'Appello il giorno seguente.
Il collaboratore Vincenzo Sinagra, killer della famiglia di Corso dei Mille, riferì nei minimi dettagli episodi riguardanti decine di omicidi. Inoltre ebbe numerose crisi nervose che portarono all'intervento delle forze dell'ordine.
Gli interrogatori
Fu di particolare interesse l'interrogatorio di Michele Greco, il capo della Cupola di Cosa nostra. Buscetta aveva affermato che Greco di fatto fosse soltanto una marionetta nelle mani dei corleonesi, e che il suo ruolo di vertice nella Commissione non rispecchiasse il suo vero potere, di fatto inferiore a molti altri boss. Durante l'interrogatorio Michele Greco cercò di apparire come un semplice latifondista senza alcun legame con Cosa nostra. Erano continui i riferimenti alla morale e alla religione, a supporto della figura di contadino estraneo alla mafia.
Luciano Leggio, durante il suo interrogatorio, parlò invece del Golpe Borghese. Affermò che Buscetta nel 1970 era stato contattato da Junio Valerio Borghese, a capo della Decima Mas, per ottenere l'appoggio di Cosa nostra al golpe militare. Egli si sarebbe invece opposto all'appoggio della mafia, impedendo di fatto il colpo di stato. Leggio sperava riferire un fatto di cui Buscetta non aveva parlato, per poterlo così delegittimare. In realtà Buscetta aveva parlato approfonditamente in istruttoria della vicenda. La pubblica accusa chiederà poi l'assoluzione per Luciano Leggio, affermando che di fatto egli non avesse più alcun potere dentro a Cosa nostra.
Il 20 giugno 1986 fu convocato Ignazio Salvo, che giunse con una valigetta contenente documenti che sarebbero dovuti servire per dimostrare la sua estraneità ai fatti contestati. La sua presenza rappresentava la volontà dello Stato di non colpire soltanto l'ala militare di Cosa nostra, ma anche i rappresentanti delle ramificazioni della mafia che andavano a toccare il potere politico. Ignazio Salvo era accusato di essere uomo d'onore della famiglia di Salemi, come suo cugino Nino Salvo.
I testimoni
Molti dei testimoni chiamati a riferire dei fatti non trovarono il coraggio di parlare. Anche molti parenti di vittime tacquero o negarono addirittura le dichiarazioni fatte in istruttoria. Vita Rognetta, madre di un amico di Salvatore Contorno, e per questo ucciso da Cosa nostra, fu una rara eccezione. Deponendo con una fotografia del figlio in mano dichiarò: "E se vogliono venirmi a uccidere ora, questi signori, possono venire a uccidere a me. Me ne vado con mio figlio. Perchè non ho più nessuno, solo questo figlio"
Oltre ai familiari degli uomini di Stato uccisi dalla mafia, come i figli del Generale Dalla Chiesa, il 14 novembre 1986 depose anche il sindaco di Palermo Leoluca Orlando per confermare la costituzione di parte civile da parte del Comune.
Un giorno durante il dibattimento, un gruppo di donne si affacciò alle ringhiere riservate al pubblico gridando verso la Corte. Queste donne (ribattezzate poi "le Erinni") erano parenti di un mafioso che si diceva si sarebbe pentito. Così speravano di convincere gli imputati che la storia del pentimento fosse solo un'invenzione, in modo da evitare il pericolo di vendette trasversali.
Verso la fase finale
L'unico omicidio che ruppe il silenzio delle armi imposto da Cosa nostra fu, il 7 ottobre 1986, fu quello del piccolo Claudio Domino. Le reali motivazioni non si conoscono, anche se la madre del bambino lavorava all'Aula bunker, ma i sospetti ricaddero sulla mafia. Per questo alcuni imputati si dissociarono pubblicamente dall'azione, come fece Giovanni Bontate. Il fratello di Stefano Bontate, passato allo schieramento corleonese, lesse un comunicato che diceva così: "Noi siamo rammaricati e addolorati quanto l'intera cittadinanza per l'eccidio dell'innocente Claudio Domino[...]". Questa dichiarazione non fu condivisa da molti mafiosi, poichè parlando alla prima persona plurale di fatto ammetteva l'esistenza di Cosa nostra.
Il processo rischiò di bloccarsi a causa di una norma del codice di procedura penale. Questa norma prevedeva che, dopo l'istruttoria dibattimentale e prima della discussione finale, fosse necessario leggere gli atti del processo. Solitamente, per evitare un inutile perdita di tempo, il presidente pronunciava la frase "Sull'accordo delle parti, si danno per letti gli atti", proseguendo nel dibattimento. Gli avvocati degli imputati si opposero all'utilizzo di questa formula, costringendo la lettura integrale degli atti. Dato che ciò avrebbe comportato un tempo eccessivo, e avrebbe avuto gravi conseguenze per quanto riguarda le scadenze dei termini di custodia cautelare, fu approvato d'urgenza il decreto Violante-Mancino, che permise di omettere la lettura delle carte permettendo così la prosecuzione del processo.
Conclusione
La requisitoria fu tenuta il 22 aprile 1987 dai Pubblici Ministeri Giuseppe Ayala e Domenico Signorino. Dopo 12 giorni, l'accusa chiese 28 ergastoli (compresi tutti i membri della cupola), quasi 5000 anni di carcere (esattamente 46 secoli, 75 anni e 11 mesi), quasi 24 miliardi di lire di multa (esattamente 23 miliardi 734 milioni 700 mila lire), 45 assoluzioni.
Domenico Signorino affermò: "Ciò che vi chiedo in sostanza non è la condanna della mafia, già scritta nella storia e nella coscienza dei cittadini, ma la condanna dei mafiosi che sono raggiunti da certi elementi di responsabilità"
Giuseppe Ayala aggiunse: "Io spero che noi accusando abbiamo in fondo difeso, da magistrati palermitani, in un processo che si celebra a Palermo, davanti alla Corte d'Assise di Palermo, i valori più autentici della nostra terra nei quali tutti noi dobbiamo continuare a credere e a riconoscerci [...] E vi devo infine dire con grande sincerità, che il collega Signorino ed io siamo non certi, siamo certissimi che la vostra sentenza, signori giudici, sarà un'autentica affermazione di giustizia. Così solo, senza lotte, il diritto vince sul delitto, la democrazia e la civiltà sulla barbarie. Grazie"
Il 30 marzo 1987 iniziarono le 32 arringhe della parte civile, 635 dei legali degli imputati. La difesa si articolò principalmente sulla tesi che i pentiti mentissero per vendicarsi, o comunque sull'inattendibilità delle loro dichiarazioni.
Il "Papa", capo della Commissione di Cosa nostra, Michele Greco dichiarò: "Io desidero fare un augurio: io vi auguro la pace, signor presidente. A tutti voi io auguro la pace. Perchè la pace è la tranquillità e la serenità dello spirito e della coscienza. Per il compito che vi aspetta [...] la serenità è la base fondamentale per giudicare. Non sono parole mie, sono parole di nostro Signore che lo raccomandò a Mosè: Quando deve giudicare, che ci sia la massima serenità, che è la base fondamentale. E vi auguro ancora, signor presidente, che questa pace vi accompagnerà nel resto della vostra vita, oltre a questa occasione"
Il Presidente Alfonso Giordano affermò: "Io non posso, dopo un anno e otto mesi gomito a gomito con tutti costoro, togati e non, licenziarmi da loro senza avere espresso nei loro confronti il più profondo, sentito e affettuoso ringraziamento"
L'11 novembre 1987 alle 11.15 la Corte entrò in camera di consiglio dopo 349 udienze e 21 mesi dall'inizio del processo.
L'esito
Il 16 dicembre 1987 alle 18.07, conclusasi la camera di consiglio, il Presidente Alfonso Giordano iniziò la lettura delle 54 pagine della sentenza terminando alle ore 19,35. La lettura del dispositivo fu effettuata per capi d'imputazione.
"In nome del popolo italiano, la Corte d'Assise prima di Palermo, visti gli articoli di legge, dichiara:[...]"
In totale furono comminate: 360 condanne (74 in contumacia), 114 assoluzioni, 19 ergastoli, 2665 anni di carcere, 11.5 miliardi di lire di multe.
- Per conoscere tutte le condanne vedi Imputati del Maxiprocesso di Palermo
Tra le condanne, possono essere ricordati gli ergastoli a Michele Greco, Pippo Calò, Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, l'assoluzione a Luciano Leggio, 7 anni a Ignazio Salvo, 3 anni e 6 mesi a Tommaso Buscetta, 6 anni a Salvatore Contorno.
Con il processo, finì anche la tregua militare della mafia. La sera stessa venne ucciso Antonino Ciulla mentre stava rincasando con un vassoio di cannoli per festeggiare l'assoluzione.
I numeri del Maxiprocesso
- Documentazione: 750.000 pagine
Durata
- Processo: 21 mesi, 638 giorni
- Camera di consiglio: 35 giorni (387 ore)
- Lettura della sentenza: 1 ora e mezza
Imputati
- 474 imputati
- 207 detenuti
- 102 a piede libero o in libertà provvisoria
- 44 agli arresti domiciliari
- 121 latitanti
Fase dibattimentale
- 22 mesi di dibattimento
- 349 udienze
- 8000 pagine di verbale (40 volumi)
- 1314 interrogatori
- 635 arringhe difensive
Esito
- 360 condanne (74 in contumacia)
- 114 assoluzioni
- 19 ergastoli
- 2665 anni di carcere
- 11.5 miliardi di multe
Protagonisti
- 900 tra testimoni e parti lese
- 200 avvocati difensori
- 16 giudici popolari (tra effettivi e supplenti)
- 3000 agenti delle forze dell'ordine
- 600 giornalisti da tutto il mondo
- 21 pentiti
Ulteriori gradi di giudizio
Appello
Il Maxiprocesso approdò alla Corte d'Appello il 22 febbraio 1989 per concludersi il 12 dicembre 1990. Presidente della Corte di Assise di Appello era Vincenzo Palmegiano, mentre l'accusa era sostenuta dai pg Vittorio Aliquò e Luigi Croce.
Gli imputati del secondo grado erano così ripartiti:
- 18 assassinati dopo la fine del processo in corte d' Assise
- 10 deceduti per cause naturali
- 27 ancora detenuti, in gran parte componenti della commissione di Cosa nostra
- 52 agli arresti domiciliari
mentre tutti gli altri imputati erano stati scarcerati per decorrenza dei termini di custodia cautelare.
Durante i mesi del dibattimento la Corte ascoltò negli USA il boss Gaetano Badalamenti e Tommaso Buscetta, a Roma Francesco Marino Mannoia e ad Alessandria il pentito Giuseppe Pellegriti e il neofascista Angelo Izzo. Palmegiano fu costretto a riaprire la fase dibattimentale a causa dell'irrompere sulla scenza giudiziaria di Francesco Marino Mannoia in qualità di pentito: in tutto la fase dibattimentale durò 22 mesi. L'accusa si resse ancora sulle dichiarazioni di Salvatore Contorno, Antonino Calderone, il nuovo pentito Francesco Marino Mannoia, ma sopratutto sul "Teorema Buscetta", che affermava la struttura verticistica e unitaria di Cosa Nostra. Nonostante fossero state confermate da riscontri obiettivi le dichiarazioni dei pentiti, la sentenza ridimensionò l'importanza delle loro dichiarazioni. Risultò particolarmente indebolita la visione verticistica e unitaria di Cosa Nostra, nonostante non fosse stata completamente disarticolata. I boss della Commissione ricevettero pene variabili e ingiustificabili (Ad esempio, Salvatore Riina e Michele Greco furono condannati all'ergastolo ma Bernardo Provenzano solo a 10 anni e Salvatore Greco a 6 anni, mentre altri killer come Giuseppe Lucchese Miccichè non ricevettero il massimo della pena). Addirittura rimasero impuniti gli omicidi del commissario Boris Giuliano, del capitano dei carabinieri Emanuele Basile e del Generale Dalla Chiesa, dopo otto anni e ben due processi. Restò, pur fragilmente, il principio che gli omicidi fossero commissionati ad un livello più alto dell'organizzazione, dunque alcuni membri della Commissione furono condannati come mandanti.
Affermò a riguardo Giovanni Falcone:
Noi, a proposito del teorema Buscetta, non abbiamo mai parlato della cosiddetta "responsabilità oggettiva" della Cupola. Insomma, io in questa sentenza noto soltanto alcune contraddizioni. [3]
E aggiunse che comunque era stato fatto un passo avanti sul piano dell'impunità:
"E' la prima volta, anche in grado di Appello, che resistono in misura non indifferente gli ergastoli. E questo è un fatto. Il processo di Palermo non è certo finito con una raffica di assoluzioni come quello celebrato 20 anni fa per i 114 della nuova mafia, non è finito nel nulla ma con 11 condanne a vita per altrettanti boss e sicari. L' impianto complessisivo della istruttoria ha tenuto, ha resistito" [3]
L'accusa aveva chiesto di confermare le condanne di Primo Grado in toto. Dopo un mese di camera di consiglio però l'esito fu ben diverso.
- 12 ergastoli su 19 del primo grado
- 258 condanne su 360
La sentenza fu considerata da alcuni disastrosa e inserita nel contesto di una "normalizzazione" dopo l'euforia del primo grado del Maxiprocesso.
Afferma Vincenzo Palmegiano:
Il giudice non può partecipare alla lotta, non può mai giudicare solo perché la folla chiede un certo tipo di sentenza.[3]
Cassazione
L'eredità
Pagine corrlate
Note
- ↑ Tribunale di Palermo, Ufficio istruzione, Ordinanza-sentenza contro Abbate Giovanni + 706
- ↑ 2,0 2,1 Tribunale di Palermo, Corte di Assise, Sentenza contro Abbate Giovanni + 459
- ↑ 3,0 3,1 3,2 "Io non lotto, faccio solo le sentenze, Intervista a Giovanni Falcone e Vincenzo Palmegiano, Repubblica, 12 dicembre 1990