Operazione San Martino


L'Operazione San Martino è stata un'inchiesta della magistratura milanese sulla c.d. "mafia dei casinò", come venne ribattezzata all'epoca, un fitto sistema criminale che coinvolgeva politici, mafiosi, agenti di cambio e diversi colletti bianchi.

L'operazione scattò la notte dell'11 novembre 1983, quando le forze dell'ordine fecero irruzione nei casinò di Sanremo, Venezia, Campione d'Italia e Saint Vincent, portando all'arresto di una quarantina di persone.

Antefatti

La passione di Giorgio Borletti dell'Acqua per i Casinò

La vicenda aveva origini lontane, anche geograficamente, dal luogo rispetto a cui prese forma: nel 1974 il governo del Kenya nazionalizzò una grande tenuta agricola di proprietà del conte Giorgio Borletti dell'Acqua, erede della famiglia che aveva fondato i magazzini "La Rinascente", e vincolò il risarcimento al suo reinvestimento in attività locali, così il conte aprì tre casinò. Essendosi appassionato a quell'attività[1], decise di lanciarsi nello stesso campo anche in Italia, ma le cose non erano per nulla facili e, dopo il fallito tentativo di acquisizione del casinò di Venezia, decise di rivolgersi ad alcuni "amici di famiglia".

Il primo fu l'allora prefetto di Milano Enzo Vicari , che gli spiegò come fosse "difficile" l'ambiente delle case da gioco italiane, mentre il secondo fu l'allora segretario del Partito Socialista Italiano Bettino Craxi, che dapprima lo mandò da un suo fedelissimo, Giorgio Giangi, il quale però giudicò il conte inadeguato a quel business, poi da Antonio Natali, padre politico di Craxi e presidente della Metropolitana Milanese, da dove raccoglieva fiumi di tangenti per il suo partito.

Fu proprio Natali, considerato l'inventore del sistema ambrosiano di spartizione delle tangenti tra i partiti, a organizzare l'incontro tra Borletti, il vicesindaco socialista di Sanremo Bruno Marra e Mauro Bettarini, dirigente Psi della città dei fiori, presso il ristorante "Il Rigolo", nel febbraio 1982. I tre discussero della gara che avrebbe deciso a quale società privata sarebbe stata concessa la gestione del casinò della città e per il quale era in corsa con la sua Flower's Paradise il conte. I due esponenti socialisti fecero subito capire al conte che avrebbe dovuto pagare una tangente, che in alcuni successivi incontri con Natali venne stimata prima in 2, poi in 3 miliardi di lire. Borletti si rifiutò di pagare e la cosa sembrò finire lì.

La Sit di Michele Merlo

In corsa per la gestione del casinò vi era anche la Sit di Michele Merlo, che aveva raggiunto un'intesa con la Democrazia cristiana, in particolare con Manfredo Manfredi, parlamentare di Imperia e sottosegretario al tesoro: la Sit avrebbe aperto anche alcuni libretti bancari per facilitare i movimenti di denaro alla politica. Il dominus della società era però Ilario Legnaro, uomo ritenuto vicino alla famiglia di Nitto Santapaola, tramite il suo socio Gaetano Corallo. Di fronte a una cordata di interessi così forti, anche Natali dovette cedere il passo e informò Borletti che i giochi erano fatti, ma clamorosamente il conte si aggiudicò la gara perché la Sit aveva presentato un'offerta che superava il tetto massimo previsto dal regolamento. Subito dopo la vittoria, Natali si rifece vivo con Borletti per chiedere il pagamento di 1 miliardo di tangente per il PSI, ma il conte si rifiutò di pagare. Qualche mese dopo, nell'agosto 1983, la Flower's Paradise cedette la gestione alla Sit in cambio di qualche miliardo di lire.

Gli interessi di Cosa Nostra nei casinò

All'indomani del blitz, si scoprì che dietro la Flower's Paradise di Borletti vi era Lello Liguori, patron del Covo di nord-est di Santa Margherita, che avrebbe avuto a sua volta alle spalle i boss Salvatore Enea e Alfredo Bono, l'ambasciatore di Cosa Nostra americana presso i colletti bianchi italiani. Quindi la vicenda dell'aggiudicazione della gara di gestione del casinò di Sanremo non era altro che una disputa tra mafiosi palermitani (Enea, Bono) e mafiosi catanesi (Santapaola).

Il pentimento di Angelo Epaminonda

Nel novembre 1984 Angelo Epaminonda, detto il Tebano, uno dei principali boss della malavita organizzata milanese, decise di collaborare con il giudice Francesco Di Maggio e contribuì a rendere maggiormente chiara la situazione attorno alla vicenda sanremese: "L'accordo non fu semplice. Liguori, che con Enea dava per certa la vittoria di Borletti, cominciò a porre il problema di Santapaola. Io gli risposi che non gli avrei corrisposto alcunché dei guadagni esterni, visto che Santapaola faceva già la parte del leone a Campione d'Italia attraverso Corallo e gli amici di questo."

Il processo

Il 10 ottobre 1989, sei anni dopo il blitz di San Martino, iniziò il processo contro i 59 imputati delle vicende del casinò di Sanremo e di Campione d'Italia[2]. Tra i politici coinvolti vi erano sia Antonio Natali, salvato da un'amnistia concessa per la sua età, e Manfredo Manfredi, salvato dal voto della Camera dei Deputati che negò l'autorizzazione a procedere. Per Natali i giudici scrissero che "non sussistono le condizioni per un proscioglimento nel merito"[3].

Il processo si chiuse con una sentenza che confermò fondamentalmente la tesi dell'accusa circa il disegno di Cosa Nostra sul controllo dei casinò e, oltre a condannare gli altri politici coinvolti, riconobbe l'associazione mafiosa per Legnaro, Corallo e Merlo. Furono assolti per insufficienza di prove Nitto Santapaola e il conte Borletti.

Ulteriori gradi di giudizio

Primo Appello

Tre anni dopo, nel febbraio 1993, la sentenza di secondo grado confermò le condanne del primo, riconoscendo anche l'associazione mafiosa per il Conte Borletti.

Cassazione

La Cassazione annullò tutte le accuse legate all'associazione mafiosa e ordinò un nuovo processo d'appello.

Secondo Appello

Il 25 giugno 1996 la Corte d'Appello di Milano confermò l'accusa di associazione mafiosa a tutti gli imputati, escluso il conte Borletti, che venne condannato per associazione a delinquere semplice, reato comunque caduto in prescrizione.

Bibliografia

Note