Giovanni Brusca

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«I pentiti devono essere ascoltati, capiti, le loro parole valutate fino in fondo. Ma quando si raggiungono tutte le conferme, bisogna sapere che i pentiti restano uno strumento fondamentale per scardinare Cosa Nostra. E in questo – ci tengo a essere anche io a dirlo – i magistrati non devono essere lasciati soli».
(Giovanni Brusca)[1]

Giovanni Brusca (San Giuseppe Jato, 20 febbraio 1957), detto “u Verru” (il porco) o “lo Scannacristiani” a causa della sua ferocia, è un collaboratore di giustizia ed ex affiliato di Cosa Nostra. Nell’organizzazione ha ricoperto il ruolo di capomandamento di San Giuseppe Jato fino al 20 maggio 1996, giorno in cui è stato arrestato insieme al fratello Enzo. Dopo aver collaborato con la giustizia e aver scontato 25 anni di reclusione, il 31 maggio 2021 è stato scarcerato.

Giovanni Brusca

Biografia

L'infanzia

Figlio di Bernardo Brusca, capomandamento di San Giuseppe Jato schierato con il Clan dei Corleonesi, e fratello di Enzo, anch’egli mafioso, Giovanni frequentò la scuola fino alla quinta elementare[2]. Dopo aver svolto per un breve periodo il lavoro di muratore e di pastore, all’età di dodici anni iniziò a svolgere alcune attività per conto del padre[3]. Tra queste c’era il portare da mangiare ai mafiosi latitanti che si rifugiavano nel loro territorio[4].

I primi omicidi

All’età di diciotto anni Brusca commise il primo di una lunga serie di omicidi. Secondo quanto dichiarò in seguito, egli uccise un certo Riolo, senza nemmeno sapere perché era stato deciso di eliminarlo[5]. L’anno successivo invece partecipò insieme a suo zio e a Leoluca Bagarella all’omicidio di un uomo colpevole di aver rubato più volte nel suo paese[6].

L’iniziazione a Cosa Nostra

Brusca entrò a far parte ufficialmente di Cosa Nostra nel maggio 1976. Alla sua iniziazione parteciparono diversi uomini d’onore, tra cui il padre, gli zii, Salvatore Riina e Leoluca Bagarella[7]. Egli descrisse così il rito:

«Qualcuno mi prese il dito e me lo punse con un ago. Mi fecero uscire un po’ di sangue e così macchiarono la «santina». A quel punto Riina le diede fuoco. E mi fece tenere la «santina» fra le mani mettendo le sue sopra le mie, a coppa. Le mani cominciarono a bruciare. Volevo buttare la «santina», ma lui non me lo permise. E intanto diceva: «se tradisci Cosa Nostra, le tue carni bruceranno come brucia questa " santina"». Erano le famose parole di rito»[8].

La Seconda guerra di Mafia

Durante la Seconda guerra di Mafia il mandamento di San Giuseppe Jato si dimostrò uno dei più fedeli a Salvatore Riina. In questo periodo Brusca si rese responsabile di numerosi omicidi, arrivando a uccidere in un solo giorno una dozzina di nemici, che furono strangolati e sciolti nell’acido[9].

La Strage di via Pipitone Federico

Brusca fece parte del gruppo che il 29 luglio 1983 fece esplodere l’auto-bomba che uccise il giudice istruttore Rocco Chinnici, i componenti della scorta Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta, nonché Stefano Li Sacchi, portiere dello stabile di via Pipitone Federico. “U verru” contribuì direttamente alla strage collocando 75kg di tritolo su una Fiat 126 che venne parcheggiata sotto casa del giudice[10].

Il soggiorno obbligato e l’inizio della latitanza

In seguito alle dichiarazioni di Tommaso Buscetta, il 29 settembre 1984 Brusca venne arrestato con l’accusa di associazione mafiosa e destinato al carcere speciale di Busto Arsizio[11]. Una volta scarcerato venne mandato per dieci mesi al soggiorno obbligato nell’isola di Linosa. Imputato a piede libero nel Maxiprocesso di Palermo, Brusca decise di darsi alla latitanza quando il 31 gennaio del 1992 la Cassazione lo condannò a sei anni di reclusione[12].

La Strage di Capaci

Brusca partecipò attivamente alla fase di preparazione e di esecuzione della Strage di Capaci. Insieme ad altri mafiosi si occupò della collocazione dell’esplosivo al di sotto dell’autostrada e, attraverso delle prove, stabilì il momento esatto in cui azionare i 1000 kg di tritolo[13].. Fu proprio lui il 23 maggio 1992 a premere il telecomando che causò la morte del giudice Giovanni Falcone, della moglie e magistrata Francesca Morvillo e degli agenti di scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro. In seguito all’attentato si recò a casa di Girolamo Guddo, dove si era dato appuntamento con Raffaele Ganci e Salvatore Cancemi per brindare alla buona riuscita del piano[14].

Il rapimento e l’omicidio di Giuseppe Di Matteo

«Conoscevo le abitudini del piccolo Giuseppe Di Matteo perché andava a Villabate, al maneggio dei Vitale, «uomini d’onore» del mandamento dei Graviano di Brancaccio. Lo avevo visto spesso da quelle parti. Passai l’informazione a Giuseppe Graviano incaricandolo del rapimento. Ma la decisione esecutiva fu mia, dall’inizio alla fine. Sono sempre stato io, in tutta la vicenda, a dire quello che si doveva e quello che non si doveva fare»[15].

Giuseppe Di Matteo, un bambino di appena dodici anni, venne rapito il 23 novembre del 1993 da un gruppo di mafiosi agli ordini di Giovanni Brusca. Lo scopo del sequestro era quello di far ritrattare suo padre Santino, che era da poco diventato un collaboratore di giustizia. Brusca nascose il bambino per 779 giorni, poi, dato che Santino Di Matteonon accennava a ritirare le proprie dichiarazioni, l’11 gennaio del 1996 diede l’ordine di strangolare e sciogliere nell’acido il piccolo Giuseppe[16].

L’arresto

Latitanza di Giovanni Brusca terminò il 20 maggio 1996, quando gli uomini della squadra mobile di Palermo fecero irruzione nella sua villa di San Leone, località Cannitello, in provincia di Agrigento. Gli investigatori ebbero la certezza che il ricercato si trovasse proprio lì grazie al rombo di una moto che i poliziotti fecero passare in quella strada e il cui suono arrivò attraverso il telefono intercettato del boss[17]. Insieme a lui venne arrestato il fratello Enzo, anch’egli latitante. Nel momento in cui gli agenti fecero irruzione nell’abitazione, i due fratelli erano a tavola in compagnia delle mogli e dei figli a guardare un programma televisivo su Giovanni Falcone[18].

La collaborazione con la giustizia

Appena tre giorni dopo la sua cattura, alle cinque di pomeriggio del 23 maggio 1996, a distanza di quattro anni dalla Strage di Capaci, il boss di San Giuseppe Jato manifestò la propria volontà di collaborare con i giudici[19]. Tuttavia, nella fase iniziale si distinse per una lunga serie di bugie, le quali miravano a salvare da conseguenze penali numerose persone a lui legate, come Vito Vitale e Giovanni Riina, e a minare la credibilità di diversi “pentiti[20]. La verità venne alla luce quando il fratello Enzo svelò ai giudici i piani di Giovanni, rivelando di essersi accordato con lui affinché anch'egli si fingesse pentito e sostenesse quello che il fratello dichiarava[21].

Dopo essere stato scoperto, Brusca rischiò di essere espulso per sempre dal programma di protezione e di passare l’intera vita in carcere. Per questo motivo decise di porre fine ai tentativi di depistaggio e cominciò a collaborare sul serio. Da quel momento Brusca ammise le proprie responsabilità, confessando ai giudici di aver commesso o ordinato all’incirca centocinquanta omicidi, tra i quali quelli del magistrato Rocco Chinnici, del bambino Giuseppe Di Matteo e di Giovanni Falcone[22]. I nuovi interrogatori vennero ritenuti attendibili e portarono alla condanna di decine di mafiosi in diversi procedimenti penali. Per questo motivo l’8 marzo del 2000 gli venne riconosciuto lo status di collaboratore di giustizia e ottenne rilevanti sconti di pena nei processi che lo videro imputato[23].

Ho ucciso Giovanni Falcone

Nel 1999 Brusca venne intervistato dal giornalista Saverio Lodato, che in seguito ai colloqui avuti con il mafioso pubblicò il libro Ho ucciso Giovanni Falcone. Oltre a informazioni biografiche, nelle pagine del volume è possibile trovare le dichiarazioni di Brusca riguardo la storia di Cosa Nostra, la Seconda guerra di Mafia e l'ascesa al potere di Salvatore Riina, l'assassinio del piccolo Giuseppe Di Matteo e la preparazione della Strage di Capaci.

I principali contributi da collaboratore

Brusca venne chiamato a testimoniare in numerosi processi, nei quali andò ben oltre agli omicidi da lui compiuti e alle responsabilità di Cosa Nostra. In diverse occasioni infatti svelò i rapporti tra Mafia-politica-istituzioni che da sempre avevano favorito e garantito l’impunità dell’organizzazione.

Processo Andreotti

Durante le udienze del Processo Andreotti, Brusca parlò delle relazioni tra Salvo Lima, Vito Ciancimino e i cugini Salvo con Cosa Nostra, e del loro rapporto con Giulio Andreotti. In particolare egli rivelò che poco dopo lo scoppio della Seconda Guerra di Mafia, Antonino Salvo gli chiese di recapitare un messaggio da parte di Giulio Andreotti in persona:

«Fai sapere agli amici che se non si danno una calmata, sono costretto, o perlomeno non sono più in condizioni di potere mantenere qua in Parlamento, sono costretto a prendere provvedimenti per la Sicilia, con qualche legge speciale, con qualche cosa di speciale. […] La risposta che io portai da Riina ai cugini Salvo fu di lasciarci stare in pace, di non fare leggi speciali, di fare il massimo per impedire che faccia leggi speciali, perché noi gli abbiamo dato... gli abbiamo fatto tanti favori e pure i voti, cioè gli abbiamo dato favori... ci abbiamo fatto favori più tutti i voti, che ogni volta li votiamo per quando ne avevano di bisogno»[24].

Brusca riferì inoltre di avere appreso sempre da Nino Salvo di un intervento riuscito presso Andreotti per la sistemazione del processo a carico di Vincenzo e Filippo Rimi, uomini d’onore della famiglia di Alcamo, i quali erano stati condannati all’ergastolo. Brusca dichiarò che la conferma di tale episodio gli arrivò sia da suo padre Bernardo sia da Salvatore Riina, ai quali aveva chiesto se le informazioni ricevute da Nino Salvo fossero vere[25].

Il processo Trattativa Stato-Mafia

Nel corso del Processo per la Trattativa Stato-mafia Brusca dichiarò che, una ventina di giorni dopo la Strage di Capaci, Salvatore Riina gli riferì che Vito Ciancimino, Umberto Bossi e Marcello Dell’Utri si erano fatti avanti con lui per trattare. Il capo di Cosa Nostra disse però che quei contatti non li interessavano[26]. In un incontro successivo gli rivelò invece con fare soddisfatto che i politici a cui era interessato si erano finalmente fatti avanti e che aveva consegnato loro un “papello” di richieste[27]. Brusca disse che il “papello” era stato preparato da Riina perché i politici gli avevano chiesto quali fossero le sue richieste per porre fine alle stragi[28]. In quell’incontro però non gli disse chi fossero tali interlocutori politici. Questi soggetti fecero inoltre sapere che, nonostante le richieste di Riina fossero troppo eccessive, un margine di trattativa era ancora possibile.

Brusca riferì che dopo l’inizio della sua collaborazione, leggendo occasionalmente un articolo di stampa, dove si faceva cenno a contatti tra Ciancimino e i Carabinieri, aveva capito che la trattativa di cui gli aveva parlatoRiina era stata portata avanti tramite dal ROS (Raggruppamento Operativo Speciale)[29].

Il collaboratore affermò anche che dopo il tentativo di omicidio del Commissario Rino Germanà, Riina gli prospettò la necessità di effettuare qualche altro attentato per indurre i politici a trattare e che egli quindi gli manifestò la possibilità di organizzare l’omicidio del magistratoPietro Grasso. L’attentato però alla fine non venne eseguito per difficoltà tecniche[30]. Brusca rivelò che lui, Leoluca Bagarella e Matteo Messina Denaro decisero di spostare il luogo degli attentati al di fuori della Sicilia e che la finalità degli attentati nel continente era sempre quella di indurre i politici a trattare sulle richieste di Riina[31]. Inoltre svelò che l’attentato contro i Carabinieri allo stadio Olimpico di Roma avrebbe dovuto costituire il “colpo di grazia” per costringere a trattare i soggetti cui era stato consegnato il “'papello[32].

Brusca infine raccontò di aver chiesto a Vittorio Mangano di contattare Silvio Berlusconi attraverso Marcello Dell’Utri al fine di ottenere un’attenuazione dell’Articolo 41 bis[33]. In aggiunta il collaboratore incaricò Mangano di prospettare a Dell'Utri che, in caso di non accoglimento della richiesta, la strategia stragista di Cosa Nostra sarebbe andata avanti[34]. Mangano ebbe quindi un colloquio con Dell'Utri, il quale gli assicurò che si sarebbe attivato in loro favore[35].

La scarcerazione

Grazie agli sconti di pena ottenuti con la collaborazione, Brusca venne scarcerato il 31 maggio 2021, dopo 25 anni di reclusione, e sottoposto a quattro anni di libertà vigilata. Tuttavia nel luglio 2022 i giudici della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo stabilirono che al collaboratore di giustizia dovesse essere riattivata la sorveglianza speciale poiché ritenuto ancora socialmente pericoloso[36]. Per lui venne quindi disposto l’obbligo di firma e il divieto di uscire di casa di notte.

Note

  1. Saverio Lodato (1999), Ho ucciso Giovanni Falcone. La confessione di Giovanni Brusca, Milano, Mondadori, p.189
  2. Ivi, p.23
  3. Ivi, pp.25-26
  4. Ivi, p.27
  5. Ivi, p.28
  6. Ibid
  7. Ivi, p.29
  8. Ivi, p.30
  9. Ivi, p.54
  10. Attilio Bolzoni, Giovanni Brusca e il piano criminale, la Repubblica, 17 luglio 2020
  11. Saverio Lodato (1999), Ho ucciso Giovanni Falcone. La confessione di Giovanni Brusca, Milano, Mondadori, p.34
  12. Ivi, p.38
  13. Ivi, pp.91-95
  14. Ivi, p.97
  15. Ivi, p.140
  16. Attilio Bolzoni (2008), Parole d’onore. Le voci di Cosa nostra. Il gergo dei suoi uomini. Fra riti e tragedie, mezzo secolo di mafia nella parlata dei mafiosi, Milano, Rizzoli, p.58
  17. Alfonso Sabella (2019), Cacciatore di mafiosi. Le indagini, i pedinamenti, gli arresti di un magistrato in prima linea, Milano, Mondadori, pp.122-123
  18. Ivi, p.123
  19. Ivi, pp.126-127
  20. Ivi, p.135
  21. Ibid
  22. Saverio Lodato (1999), Ho ucciso Giovanni Falcone. La confessione di Giovanni Brusca, Milano, Mondadori, p.7
  23. Saverio Lodato (2017), Quarant’anni di Mafia. Storia di una guerra infinita, Milano, Rizzoli, pp.371-372
  24. Francesco Ingargiola (1999), Sentenza n. 881/99 contro Andreotti Giulio, Tribunale di Palermo - V Sezione Penale, 23 ottobre, pp.474-476
  25. Ivi, p.818
  26. Alfredo Montalto (2018), Sentenza 11719/12 contro “Bagarella Leoluca +9”, Corte di Assise di Palermo – II Sezione Penale, 20 aprile, p.1595
  27. Ivi, p.1597
  28. Ivi, p.1598
  29. Ivi, pp.1610-1611
  30. Ivi, p.1608
  31. Ivi, pp.2012-2014
  32. Ivi, pp.2751
  33. Ivi, p.3658
  34. Ivi, pp.4359-4360
  35. Ivi, p.3664
  36. Salvo Palazzolo, Non c'è la prova che sia cambiato. Ecco perché il pentito Brusca viene ritenuto socialmente pericoloso, la Repubblica, 29 luglio 2010

Bibliografia

  • Bolzoni, Attilio (2008). Parole d’onore. Le voci di Cosa nostra. Il gergo dei suoi uomini. Fra riti e tragedie, mezzo secolo di mafia nella parlata dei mafiosi, Milano, Rizzoli.
  • Bolzoni Attilio (2020, 17 luglio). Giovanni Brusca e il piano criminale, la Repubblica.
  • Dickie John (2007), Cosa nostra. Storia della mafia siciliana, Roma, Laterza.
  • Ingargiola Francesco (1999), Sentenza 881/99 contro Andreotti Giulio, Tribunale di Palermo - V Sezione Penale, 23 ottobre.
  • Lodato Saverio (1999). Ho ucciso Giovanni Falcone. La confessione di Giovanni Brusca, Milano, Mondadori.
  • Lodato Saverio (2017). Quarant’anni di Mafia. Storia di una guerra infinita, Milano, Rizzoli.
  • Lodato Saverio, Di Matteo Nino (2018). Il patto sporco. Il processo Stato-Mafia nel racconto di un suo protagonista, Milano, Chiarelettere.
  • Montalto Alfredo (2018). Sentenza 11719/12 contro Bagarella Leoluca +9, Corte di Assise di Palermo – II Sezione Penale, 20 aprile.
  • Palazzolo Salvo (2022, 27 luglio). Brusca libero è socialmente pericoloso. Sorveglianza speciale per l'ex boss pentito scarcerato dopo 25 anni, la Repubblica.
  • Palazzolo Salvo (2010, 29 luglio). Non c'è la prova che sia cambiato. Ecco perché il pentito Brusca viene ritenuto socialmente pericoloso, la Repubblica.
  • Sabella Alfonso (2019). Cacciatore di mafiosi. Le indagini, i pedinamenti, gli arresti di un magistrato in prima linea, Milano, Mondadori.