A quasi un anno dal sorprendente esito del processo d’appello “Trattativa Stato-Mafia”, le motivazioni sono ancora più sorprendenti e inaccettabili.
Un Tribunale della Repubblica, “in nome del popolo italiano” ha infatti affermato che è lecito per uomini che hanno giurato sulla Costituzione intavolare una trattativa con i vertici mafiosi, operando “sconcertanti omissioni” investigative favorendo l’ascesa di un “boss moderato” (Bernardo Provenzano) con l’obiettivo di un “ripristino di un costume di rapporti effettivamente fondato su una reciproca coabitazione”.
Così si legittima chi non combatte la mafia
Nonostante venga definita come “un’improvvida iniziativa”, i giudici di Appello sostengono ben al di là del ridicolo che la Trattativa fu mossa “da fini solidaristici (la salvaguardia dell’incolumità della collettività nazionale) e di tutela di un interesse generale – e fondamentale – dello Stato”. Nonostante sia accertato in altri procedimenti definitivi (cfr Sentenza Tagliavia) che la disponibilità dei Carabinieri ad avviare un dialogo per fermare il “muro contro muro” incentivò, anziché fermare, lo stragismo dei corleonesi.
Pure nella giustificazione di atti gravissimi come la mancata perquisizione del covo di Riina e della cattura di Bernardo Provenzano, la Corte crea un pericoloso precedente che fa rivoltare nella tomba i tanti servitori dello Stato di cui ricordiamo il sacrificio ogni anno.
Parlando di “indicibili ragioni di “interesse nazionale” a non sconvolgere gli equilibri di potere interni a Cosa Nostra che sancivano l’egemonia di Provenzano e della sua strategia dell’invisibilità o della sommersione”, la Corte squalifica di fatto il sacrificio di chi negli anni è morto per sradicare il potere mafioso dalla Sicilia e dall’Italia intera, non piegandosi mai a scendere a patti con le diverse organizzazioni mafiose.
Incredibile, anche alla luce di quanto raccontato da Agnese Borsellino prima di morire, l’individuazione del movente della Strage di Via D’Amelio nel famoso dossier mafia-appalti, brandito da certa stampa come prova dell’infedeltà di servitori dello Stato intransigenti come il dott. Roberto Scarpinato, mai nemmeno sfiorato da un sospetto di collusione.
Una Repubblica delle banane. Andate a male
Così facendo la Corte d’Appello di Palermo presieduta da Angelo Pellino, giudice a latere Vittorio Anania, giustifica non solo l’esistenza del potere mafioso, ma anche chi nello Stato punta alla “pacifica coabitazione” sulla pelle dei cittadini e in contrasto con la Costituzione.
Noi la pensiamo come il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in attesa da oltre 42 anni di verità e giustizia sulla morte di suo fratello: “O si sta contro la mafia o si è complici, non ci sono alternative”.
Auspichiamo che la Corte di Cassazione ristabilisca questo sacrosanto principio e non voglia rendersi corresponsabile di una definitiva degradazione dell’Italia in quella Repubblica delle Banane tanto evocata ai tempi dei governi Berlusconi e che oggi sembra concretizzarsi in una sentenza che giustifica il peggio di oltre 150 anni di storia dello Stato italiano. Con la differenza che anche le banane sono andate a male.
Responsabilità politiche gravi, chi se le assume?
Anche qualora fosse definitivamente dimostrato che in questo paese è impossibile accertare le responsabilità penali, quelle politiche ci sono e pesano come macigni e prima o poi qualcuno dovrà farsene carico.
Noi, dal canto nostro, continueremo a lottare, senza sosta e senza tregua, contro la strisciante opera di normalizzazione del fenomeno mafioso che certa parte della classe dirigente politica ed economica di questo Paese vuole far passare, anche disinnescando l’incisività della legislazione antimafia.
Milano, 7 agosto 2022