Intervista a Umberto Santino, di Francesco Moiraghi, da I Siciliani di giugno
“Una Cosa nostra in perdurante affanno, impegnata in una frenetica rimodulazione degli assetti e delle catene di comando, con frequenti tentativi, ad opera di nuove leve, di rapide ascese all’interno dell’organizzazione”. Con queste parole, nella relazione della Direzione Investigativa Antimafia, si apre la sezione dedicata a Cosa nostra, organizzazione divenuta un’osservata speciale per la delicata fase di trasformazione che sta attraversando. Con una particolare attenzione sull’area palermitana, da sempre cuore pulsante di Cosa nostra, cerchiamo di capire quali sono le prospettive di sviluppo e modifica dell’organizzazione. Ne parliamo con Umberto Santino, presidente del Centro Siciliano di Documentazione “Giuseppe Impastato” e profondo conoscitore delle dinamiche evolutive del fenomeno mafioso in Sicilia.
Considerando le inchieste e i processi che hanno colpito Cosa nostra a Palermo negli ultimi anni, si può parlare veramente di una fase di arretramento o l’azione repressiva ha condotto ad una semplice mutazione?
Cosa nostra ha pagato i grandi delitti degli anni ’80 e le stragi degli anni ’90 che l’hanno portata in prima pagina ma hanno avuto effetti boomerang, con la legge antimafia, il maxiprocesso, le leggi premiali per i collaboratori di giustizia, il carcere duro, gli arresti e le condanne di capi e gregari. L’impunità che storicamente è stata una forma di legittimazione della violenza mafiosa, quando essa serviva a perpetuare un assetto di potere, si è interrotta dopo i delitti che hanno colpito personaggi delle istituzioni in un periodo storico in cui il crollo del socialismo reale, l’archiviazione del Partito comunista, la riduzione delle sinistre residuali a soggetti marginali non rendeva più necessario l’uso della violenza extrastatuale per governare e reprimere il conflitto sociale e impedire l’affermarsi di prospettive alternative. In questo contesto la mafia siciliana ha visto ridimensionarsi il suo ruolo di soggetto politico, mentre la repressione ne decimava le file. Si aggiunga che i processi di globalizzazione, fortemente criminogeni per due aspetti fondamentali: l’aggravarsi degli squilibri territoriali e dei divari sociali, che spingono gran parte della popolazione mondiale al ricorso all’economia illegale, e la finanziarizzazione dell’economia, che rende sempre più difficile distinguere tra capitale legale e illegale, hanno visto il proliferare di organizzazioni criminali di tipo mafioso, cioè che coniugano l’associazionismo criminale a un sistema di rapporti. In questo quadro la mafia siciliana ha perso il ruolo, se non egemonico comunque di primo piano, nel traffico di droghe, che rappresenta la prima fonte dell’accumulazione illegale. E attualmente assistiamo a processi che cercano di far fronte a questi problemi. Un altro problema è rappresentato dall’insediamento a Palermo di nuovi soggetti criminali. Come si configura il rapporto con le mafie storiche? Sono possibili tre ipotesi: convivenza, complicità, conflitto. Non ci sono tracce di conflitto. Risulta da recenti inchieste che c’è una collaborazione tra mafiosi locali e criminali nigeriani nel traffico di droghe e stiamo studiando qual è il ruolo della mafia nell’industria del sesso mercenario, in particolare lo sfruttamento schiavistico delle donne nigeriane. I mafiosi si limitano a lasciar fare o hanno un ruolo attivo? Si ricordi che già a fine Ottocento i cosiddetti “ricottari”, mafiosi o aspiranti tali, gestivano i bordelli nei quartieri popolari di Palermo e negli Stati Uniti una delle attività più lucrative dei mafiosi emigrati era lo sfruttamento della prostituzione.
Non si può non considerare i cambiamenti nella coscienza della società civile: associazioni e semplici cittadini stanno fornendo un importante contributo per il contrasto della criminalità organizzata, ma non si può neanche dire che i mafiosi abbiano perso il loro ruolo di mediatori e rappresentati di un ordine alternativo, anzi…
Nella coscienza dei cittadini qualcosa è mutato, per esempio per quanto riguarda l’antiracket, ma si tratta di mutamenti che coinvolgono ancora minoranze. La stessa cosa si può dire per l’uso sociale dei beni confiscati. L’azione nelle scuole può produrre i suoi frutti ma è troppo schiacciata su un’idea di legalità astratta e formale. Non si è creato finora qualcosa che somigli al movimento contadino che spingeva allo scontro con la mafia centinaia di migliaia di persone sulla base dei bisogni della vita quotidiana. Ma qui il problema si allarga, riguarda l’inesistenza di una sinistra. Prima la sinistra era legata agli interessi e alle lotte di operai e contadini, oggi bisognerebbe raccogliere e rappresentare il disagio di disoccupati, precari ed emarginati, che potrebbero essere i soggetti di una prospettiva di mutamento. Purtroppo non lo fa nessuno, né a livello sindacale né a livello politico.
Il ruolo di mediazione della mafia oggi è stato sostituito dall’assedio agli enti locali e dalla compartecipazione al potere sul territorio: si veda il numero crescente di consigli comunali sciolti per mafia, da qualche anno non solo al Sud; molti di essi riguardano ’ndrangheta e camorra, con un ruolo crescente della ’ndrangheta nella gestione dei comuni e nella compartecipazione alle grandi opere, come dimostrano i recenti arresti per l’Expo milanese. Il ruolo della ‘ndrangheta si deve non solo ai corposi trasferimenti in nuove aree, con la formazione di nuove ’ndrine, ma soprattutto alla grande accumulazione derivante dal traffico di droghe. In un periodi di crisi, con le difficoltà di accesso al credito, la ’ndrangheta funge da dispensatrice di liquidità e se non si affronta il problema del proibizionismo le mafie continueranno ad essere soggetti finanziari di primo piano.
L’azione repressiva ha costretto ad una riorganizzazione di tipo territoriale ed organizzativo delle varie famiglie. Si pensi ad esempio all’operazione “Nuovo mandamento”, che ha rivelato l’unione dei mandamenti di Partinico e San Giuseppe Jato nel maxi-mandamento di Camporeale. Come si possono leggere queste evoluzioni?
Direi che essi rappresentano un dato fisiologico. Sono aggiustamenti che tengono conto di un certo assottigliamento delle presenze, delle difficoltà di reperire sostituti a capi in carcere o comunque non più in grado di comandare. E’ una riorganizzazione che dimostra tutto sommato una capacità di ridisegnare la geografia della struttura interna e della signoria territoriale.
Gli arresti inoltre hanno portato, come è naturale, ad un’ascesa di nuovi personaggi, giovani ed ambiziosi, nel panorama mafioso. Che rapporto si instaura tra questi “parvenu” e gli storici capimafia, alcuni dei quali hanno anche finito di scontare le loro condanne?
Il rapporto tra vecchi e giovani, tra personaggi storici e soggetti emergenti, può configurarsi in vari modi: come un avvicendamento pacifico o come un tentativo di scalata, con la destituzione dei vecchi gruppi di comando, che prevede il ricorso, per la mafia “normale”, alla violenza. Mi pare che alcuni recenti delitti dimostrino che i vecchi non hanno nessuna intenzione di cedere pacificamente le posizioni di potere.
Giuseppe Calascibetta nel 2011, Francesco Nangano nel 2013, Giuseppe di Giacomo lo scorso marzo, con la raffica di morti che avrebbero potuto seguire, come rivelato dall’operazione “Iago”: Cosa nostra non ha rinunciato agli omicidi, ma la scelta delle vittime sembra più oculata e l’uccisione è usata con più prudenza rispetto ad un tempo. Che ruolo occupa il ricorso all’omicidio nelle nuove strategie di Cosa nostra?
Gli ultimi omicidi mi sembrano delle “potature” con cui si eliminano soggetti che mirano a mettere in forse assetti di potere interno che i mandanti degli omicidi vogliono mantenere. L’omicidio per la mafia è il mezzo con cui viene condotta la lotta egemonica interna e l’applicazione della pena di morte per chi viola le sue norme o ostacola i suoi interessi. L’escalation della violenza nei primi anni ’80 e ’90 ha avuto gli effetti boomerang che ricordavo, per cui, sotto la gestione Provenzano, che è stato uomo di tutte le stagioni: killer con Luciano Liggio, stragista con Riina, “pacificatore” successivamente, si è evitato il ricorso alla violenza esterna in forma eclatante (ma sono continuate minacce e intimidazioni), che aveva esposto Cosa nostra all’ondata repressiva. I delitti più recenti dimostrano che la lotta egemonica prosegue con modalità violente. La violenza continua a essere il dato distintivo della mafia, in nome del non riconoscimento del monopolio statale della forza. Da questo punto di vista niente di nuovo. Siamo in piena continuità con la soggettività politica della mafia cos’ come l’ho definita in un saggio dei primi anni ’90, recentemente ripubblicato: la mafia ha un suo complesso di regole, un ancoraggio territoriale, un apparato per esercitare la coercizione, cioè per punire chi non osserva le sue regole.
Sembra che stiano cambiando anche i tipi di attività illecite: insieme al ritorno del traffico di droga si registra un calo delle estorsioni. Come si possono leggere questi dati?
Il calo delle estorsioni, se i dati sono attendibili, si deve a due ragioni: un certo numero di commercianti e imprenditori ha imboccato la strada della mobilitazione antiracket e i mafiosi preferiscono non riprovarci; la crisi falcidia redditi e proventi e i mafiosi capiscono che taglieggiare soggetti impoveriti può ridurre fortemente il consenso. Che però il consenso ci sia ancora lo dimostra la prova di forza ai funerali di Di Giacomo, con i mafiosi in prima fila, gli applausi dei partecipanti in gran numero, i labari della confraternita, la messa in chiesa. Solo ora l’arcivescovo di Palermo si è deciso a intervenire. Ma non lo sa che le confraternite sono da sempre in mano alla mafia, che le feste dei santi patroni, a cominciare da santa Rosalia a Palermo, per la falsa guarigione dalla peste del 1624, e di sant’Agata a Catania, sono o sono state feste di mafia? In una fotografia della processione dell’Immacolata a Cinisi, del 1979, si vede il mafioso Finazzo tra le autorità, vicino all’arciprete. Da qualche tempo scene simili non si vedevano, sotto l’infierire della repressione. Ora sono ritornate. A proposito di Chiesa, voglio segnalare che le recenti occupazioni dei senza casa di Palermo hanno riguardato edifici e istituti religiosi, da tempo abbandonati. Gli occupanti hanno richiamato le parole di papa Francesco che invita ad aprire ai bisognosi case e conventi. Una suora ha subito presentato denuncia contro i violatori della proprietà privata, sacra per tutti ma in particolare per i religiosi, e in un incontro con rappresentanti di senza casa il cardinale, a proposito delle parole del papa, ha risposto con un sorrisino.
Riguardo al traffico di droga mi pare ovvio che Cosa nostra miri a un rientro, ma il quadro adesso è molto più affollato di quello ai tempi di Badalamenti, che dal processo alla Pizza Connection risultava alla testa del traffico di eroina tra la Sicilia e gli Stati Uniti, e non so se riuscirà a riguadagnare posizioni nella gara a chi accumula di più.
Alla luce di queste riflessioni, cosa si potrebbe immaginare nell’analisi delle prospettive di evoluzione di Cosa nostra nel breve-medio periodo?
Cosa nostra è in crisi e dovrà barcamenarsi per venirne fuori, ma il modello mafioso del mio “paradigma della complessità”: crimine, accumulazione, potere, codice culturale, consenso sociale, associazionismo criminale e sistema relazionale, mi pare in gran forma. Lo dicevo già prima: la globalizzazione fa il tifo per le mafie e per l’accumulazione illegale, che non conosce crisi e non deve fare i conti con i balletti dello spread. E il capitalismo nella sua fase finanziaria, con i suoi titoli tossici e con le innovazioni relative alla raccolta e circuitazione del capitale, a prescindere dalla sua provenienza, è un grembo accogliente.